Una linea rosa. Incredibile quanto una cosa, apparentemente banale, possa cambiare la tua vita in un secondo… quando mio marito Luca ed io ci siamo rincontrati, dopo tanti anni dal nostro primo “filarino” che risaliva alla tenerissima infanzia, abbiamo discusso anche di famiglia e della voglia che entrambi avevamo di avere dei figli, roba che al primo appuntamento farebbe scappare a gambe levate qualsiasi uomo ventiseienne sulla faccia della terra, ma non lui.
Lui proprio come me, infatti, sentiva il desiderio di diventare papà da tempo e così, soprattutto per assecondare questo nostro sogno, nel giro di poco più di due anni ci siamo sposati: una giornata meravigliosa e già all’insegna del nostro desiderio di famiglia tanto che tra i doni portati all’altare, ossia oggetti che gli sposi scelgono come simbolici del loro rapporto, inserimmo anche delle scarpette da neonato per “testimoniare l’apertura alla vita”. Così sottolineò il Parroco che ci conosceva bene.
A essere sincera, già qualche mese prima del matrimonio, avevo interrotto l’assunzione della pillola anticoncezionale; la prendevo da molti anni per tenere sotto controllo la sindrome delle ovaie micropolicistiche che mi portava ad avere, tra le altre cose, cicli lunghissimi (anche della durata di un mese) e dolorosi, d’altra parte ci sentivamo pronti ad avere un figlio e così ci venne naturale non prendere più alcuna precauzione.
I mesi dei preparativi del matrimonio furono alquanto caotici, in più la mia ginecologa mi aveva prospettato da sempre che avrebbero potuto esserci delle difficoltà a concepire a causa dei miei cicli sballati. Insomma non ci preoccupammo più di tanto del ciclo che, puntualmente o no, si presentava.
Dopo il matrimonio, tuttavia, iniziammo a lavorare seriamente a questo progetto; sì perché, per certi versi, proprio di un lavoro si trattava: iniziammo a documentarci sul concepimento e sulle varie teorie ad esso collegato (più o meno scientifiche diciamo così) quindi partimmo con rapporti ogni giorno, no forse è meglio uno sì e uno no altrimenti i “soldatini” si stancano.
Anzi, il successo è garantito se ci si “incontra” un giorno sì e due no e poi, mi raccomando, gambe in su modi candela dopo ogni rapporto per almeno mezz'ora (una specie di tortura insomma), posizioni inenarrabili, integratori ad hoc (alcuni pure di dubbia provenienza), dieta ferrea perché il sovrappeso è nemico dell’ovulazione ecc. ecc.
Nonostante tutto, nulla … il ciclo si presentava e pure in maniera beffarda, magari a distanza di 50-60 giorni dall’ultimo, costringendomi così a fare test di gravidanza (puntualmente negativi): quanto ho odiato quella seconda linea rosa che non compariva mai, quello spazio che diventava subito bianchissimo - anziché striato di rosa - a riprova dell’ennesimo insuccesso e senza darmi nemmeno qualche secondo per sperarci, per farmi anche solo accarezzare quel sogno.
Tra di noi si parlava poco di questo problema perché faceva dannatamente soffrire entrambi, quindi, ognuno di noi cercava di tutelare l’altro evitando di riversargli addosso le sue lacrime e le sue preoccupazioni. Dopo circa un anno di tentativi iniziammo ad usare gli stick per capire esattamente il giorno dell’ovulazione, la mia ginecologa si rese disponibile anche a farmi un’ecografia nei presunti “giorni giusti” in modo da avvalorare il risultato dello stick, così avemmo rapporti cosiddetti “mirati” per un paio di mesi, nonostante questo, tuttavia, la maledetta linea rosa continuava a snobbarci.
La ginecologa mi prescrisse così tre confezioni di Clomid, un farmaco che aiuta e migliora l’ovulazione, avrei dovuto assumerlo e controllare ecograficamente con lei l’andamento della stessa, neppure questo però servì e la dottoressa fu costretta, suo malgrado, ad “arrendersi” e inviarci a un Centro Sterilità. Iniziò così, a fine 2008, il nostro percorso nei centri di procreazione medicalmente assistita, ne consultammo un paio telefonicamente (non senza difficoltà considerando che il più delle volte trovavo il telefono sempre occupato o con la segreteria con conseguente voglia di “mangiarmi” la cornetta) e prendemmo, dunque, appuntamento nel Centro PMA di un ospedale milanese.
Ci accolse al primo colloquio una dottoressa giovane e gentile la quale diede un’occhiata ai pochi esami in nostro possesso e ce ne prescrisse moltissimi altri, ricordo questo elenco lunghissimo di esami “per lei” e l’indicazione dello spermiogramma “per lui”, sì perché principalmente è la donna ad essere rivoltata come un calzino; inizialmente, infatti, salvo casi particolari, l’uomo deve “semplicemente” fornire un campione di sperma, semplicemente si fa per dire perché sfido chiunque a dover trovare la giusta concentrazione, diciamo così, nel bagno di un ospedale, ma questo potrebbe raccontarlo meglio mio marito che, di certo, mai più si immaginava di esser costretto ad avere un ritorno all’adolescenza alla soglia dei trent'anni.
A fine colloquio si presentò una seconda dottoressa (la responsabile del centro), anche lei diede un’occhiata alla nostra cartella clinica nel frattempo compilata, mi guardò e disse: “Signora ha qualche mese per fare tutti gli esami e nel frattempo deve dimagrire almeno 8 kg, non voglio essere costretta dalla prossima visita a prescriverle una dieta solo a base di lattuga” . Giuro che quelle parole (nonché la sua faccia) le ho stampate nel cervello.
Per carità non sono un’acciuga, ma sono sempre stata orgogliosa della mia taglia 44 e, onestamente, il cibo era (ed è) uno dei maggiori piaceri della mia vita quindi uscii da quella visita parecchio indispettita, ma al contempo felice perché sapevo che, finalmente, stavamo affrontando il problema con l’aiuto di professionisti del settore e non vedevo l’ora di iniziare la trafila di esami. Iniziai quindi a sottopormi ad esami del sangue più svariati, consulti col genetista, mammografia, ecografie in giorni prestabiliti, isterosalpingografia che non è una parolaccia bensì l’esame che controlla la pervietà delle tube, una roba dolorosa, ma per fortuna breve come il mio proposito di seguire una dieta.
Occorsero mesi per concludere tutto con un notevole esborso economico (ricordo in particolare una fattura di € 600 del laboratorio analisi dove eseguimmo gli esami del sangue richiesti dal genetista) e non solo.
Ci ripresentammo al centro PMA, dopo una lunga attesa e sguardi complici con le altre donne in quella sala d’attesa (invece gli uomini erano generalmente indaffarati a leggere un giornale o consultare il cellulare) ci chiamò un’ennesima dottoressa che con fare sbrigativo guardò tutte le analisi e sentenziò: “Non ci sono problemi particolarmente gravi,
dunque , la vostra è una sterilità idiopatica (idio cheeeeeeeeee????? pensai) ossia inspiegata (ah ecco), direi di partire col primo livello di PMA
Tutto qua, una procedura all’apparenza molto semplice. Iniziai così le temutissime punture sulla pancia, inizialmente fatte da mia suocera che istruì poi mio marito onde evitare spostamenti continui. Devo ammettere che ad un certo punto avevo più buchi e lividi sulla pancia io rispetto alle persone con problemi di tossicodipendenza che vedevo per lavoro.
A proposito di famiglie d’origine, le nostre vennero informate da subito di questo nostro percorso, così come i nostri amici più cari: condividere questi aspetti, seppur così intimi, non era un problema per noi, semmai i problemi venivano da altri (vicini di casa, conoscenti, colleghi…), persone con le quali magari avevi scambiato solo due parole prima di quel momento, ma che davanti a un caffè o in giro per strada si sentivano legittimate a chiederti conto della tua vita sessuale. Non solo domandandoti come mai non avessi ancora figli, ma prodigandosi pure a darti consigli a riguardo perché “sai non bisogna aspettare troppo” oppure “siete sposati da parecchio ormai” o ancora “avete pensato a prendere un cane/andare in crociera/fare un bel bagno alle terme perché sai l’amica della cognata della mia collega è rimasta incinta proprio così”
per non parlare poi dell’odiosissima frase “non pensarci, quando ti rilasserai arriverà”.
Ecco, vi prego, non ditela mai a nessuno questa frase perché se una donna ha le tube chiuse non sarà rilassandosi che magicamente si apriranno, o ancora, se un uomo non ha uno spermatozoo manco a pagarlo (magari a causa di tumori o cure pregresse ecc.
) nemmeno se diventerà il più fedele cliente Costa Crociere riuscirà ad avere un figlio e, oltretutto, chissà quanta sofferenza questo gli comporterà.
Arrivammo al giorno dell’inseminazione.
I controlli ecografici che l’avevano preceduta avevano mostrato parecchi follicoli in crescita, in sostanza parecchi ovetti possibilmente fecondabili, scoprimmo con amarezza quella mattina che in realtà erano anche troppi purtroppo: primo tentativo stoppato per “iperstimolazione ovarica”, evidentemente il dosaggio del farmaco era troppo elevato, di conseguenza “signora non possiamo procedere all’inseminazione, non possiamo mica rischiare di fare subito la squadra di calcetto” come no, pensai, almeno mi tolgo subito il pensiero…per fortuna evitai di esprimere qualsiasi parere e tornai a casa con la prescrizione di tre mesi di pillola anticoncezionale per cercare di far tornare alla normalità le ovaie, oltre al danno pure la beffa insomma.
Passarono tre mesi e iniziai la seconda stimolazione.
Questa volta si procedette all’inseminazione, nulla di doloroso, un semplice cateterino e via, certo gli spermatozoi dopati a dovere dovranno metterci pure del loro, le mie ovaie sono pronte ad accoglierli “a braccia aperte”. In tutto questo turbinio di visite, speranze, emozioni delle più contrastanti (di certo anche gli ormoni giocavano la loro parte) avevamo il nostro bel da fare a prendere permessi dal lavoro con scuse ormai in via di esaurimento, anche questo spesso è un ostacolo difficile da superare senza temere ripercussioni.
I 14 giorni che seguirono, in attesa del verdetto, furono stremanti e passarono lentamente; la dottoressa mi raccomandò di condurre una vita normale, ma ovviamente già prendevo tutte le precauzioni per tutelare l’eventuale puntino che, speravo, stesse crescendo dentro di me fino al giorno del test di gravidanza, negativo. Lo feci da sola per risparmiare una delusione a mio marito e gli mandai poi un messaggino al quale lui rispose di non preoccuparmi e che ci avremmo riprovato.
A quel punto però decidemmo di cambiare e ci rivolgemmo al Centro Sterilità di un altro ospedale milanese grazie al quale un paio di mie conoscenti erano riuscite a rimanere incinte; seguirono altri esami, altri dottori, altri pareri, ma soprattutto altri due tentativi di inseminazione artificiale falliti, in entrambe queste occasioni non arrivai nemmeno a fare l’ennesimo temuto test di gravidanza, il ciclo si presentò qualche giorno prima del giorno previsto distruggendo il nostro sogno di allargare la famiglia ancora una volta.
Erano passati tre anni dall’inizio del nostro progetto e nulla di positivo avevamo raccolto, fortunatamente almeno il nostro rapporto di coppia si rafforzava col tempo anziché logorarsi pian piano come, purtroppo, ho visto accadere a tante coppie conosciute durante quegli anni.
Sapevamo che a quel punto saremmo dovuti passare al secondo livello di cure previste dai protocolli della Procreazione Medicalmente Assistita ossia alla “Fecondazione in vitro” e decidemmo di tentare il tutto e per tutto rivolgendoci a un centro PMA privato con sede a Lugano…eravamo esausti delle telefonate in attesa infinite, delle code lunghissime per fare un’ecografia da tre minuti scarsi, di cambiare ogni volta dottore ecc.
Volevamo sentirci “accolti” e avevamo bisogno di qualcuno che ci desse speranze per non mollare. Fu proprio quello che accadde durante il primo colloquio col nostro Dottore il quale esaminò tutta la documentazione in nostro possesso, ci prescrisse alcuni esami nel frattempo scaduti (sì perché scadono pure quelli!) e altri mai fatti prima di allora per approfondire alcuni aspetti, ma soprattutto rimase ad ascoltarci per quasi due ore rispondendo a ogni dubbio comportandosi quasi più da psicologo che da dottore.
Avendo il sospetto che potessi soffrire di endometriosi, mi consigliò di sottopormi anche ad una laparoscopia operativa ossia ad un intervento chirurgico durante il quale vengono praticate tre incisioni sull’addome e con una sonda si esamina tutto l’apparato riproduttivo femminile, anche al fine di asportare eventuali cisti o aderenze causate dalla malattia.
Io sono una fifona cronica, non ero mai stata in ospedale prima di allora quindi vissi i giorni che precedettero l’operazione alla stregua di un condannato a morte, avevo persino lasciato le mie ultime volontà a mio marito. Era dicembre 2010, l’operazione andò bene, solo che – anziché durare al massimo un paio d’ore come previsto – durò quasi 5 ore perché come disse il chirurgo ai miei e mio marito (che erano invecchiati anni in attesa fuori dalla sala operatoria)
“la signora soffre di endometriosi severa, era piena di cisti e aderenze dovute alla malattia, le tube erano praticamente adese alle ovaie…comunque abbiamo ripulito tutto e non escludo che possa arrivare una gravidanza naturalmente nei prossimi mesi”.
A settembre 2011 quindi iniziamo il nostro percorso di Fecondazione in Vitro, la stimolazione ormonale fu molto più pesante e il protocollo farmacologico più rigido dei precedenti tanto che mi è capitato di dovermi allontanare, nel bel mezzo di un addio al nubilato in un centro termale, per fare la puntura ad un orario prestabilito (e fortuna volle che quel centro fosse dotato di un’infermeria) oppure di farmi bucare da mio marito nel bel mezzo di una passeggiata sul lago tra gli sguardi attoniti dei passanti e con i nostri amici che cercavano di “coprirci”.
Dopo la stimolazione è previsto il pick up degli ovociti quindi la donna viene addormentata (o almeno parzialmente sedata) e con un particolare ago vengono aspirati i follicoli prodotti, io mi comportai da “brava gallinella” e riuscirono addirittura a prelevarmene una decina. A questo punto i follicoli prelevati vengono fatti incontrare in provetta con gli spermatozoi del partner con la speranza che vogliano “fare amicizia”, cosa non affatto scontata, fortunatamente nel nostro caso andò bene e riuscirono ad ottenere i due piccoli embrioni da trasferire nel mio pancino.
Il giorno del transfer fu un susseguirsi di emozioni, sapevo che in quella sonda (una sorta di canna da pesca in miniatura) c’erano due potenziali vite e non desideravo altro che riuscissero ad aggrapparsi forte alla loro mamma, nonostante il freddo iniziale di una provetta prima e il simil lancio nel mio utero poi…
Strinsi forte la mano a mio marito, feci un respiro profondo e nel giro di due minuti tutto finì, il dado era tratto, il dottore mi disse di stare a riposo assoluto per i primi 3-4 giorni (che sono quelli fondamentali per l’attecchimento) e che ci saremmo risentiti dopo due settimane.
In quelle prime e decisive giornate mi trasferii dai miei genitori, mi alzavo dal letto solo per andare in bagno perché sapevo che la posizione “orizzontale” può aiutare gli embrioncini ad aggrapparsi bene, superfluo dire che questi due piccolini erano la mia priorità ed il mio unico pensiero.
A furia di cercare di cogliere ogni minimo e potenziale segnale del mio corpo, stavo quasi rasentando la follia quando finalmente arrivò il giorno del prelievo per il dosaggio delle Beta, in onestà erano un paio di giorni che avevo i classici doloretti pre-mestruali quindi andai a ritirare l’esito in ospedale abbastanza sfiduciata, mentre mio marito era al lavoro mia mamma volle accompagnarmi a tutti i costi.
Ritirai la busta, percorsi l’androne dell’ospedale con il cuore in gola, attraversai la strada e mi sedetti in macchina accanto a mia mamma, sfilai l’adesivo…ero pronta al peggio, immaginavo di trovare refertato “zero” oppure “non in gravidanza” e, invece,
lessi…”605”, e chi se lo dimentica quel numero!
Lo riguardai più volte, incredula, mentre le lacrime già segnavano copiosamente il mio viso mentre ripetevo a mia mamma “non è zero, non è zero, non è zero”, lei attonita, in lacrime e soprattutto in ansia perché non capiva cosa volessi dire con quella frase ripetuta modi automa mi sollecitava “quindi? sei incinta o no?”, risposi “sì mamma, pare proprio di sì”, ci abbracciamo fortissimo e l’idea di andare a fare shopping consolatorio, nel caso fosse andata male, fu immediatamente sostituita dalla voglia di chiamare Luca e dare la notizia a mio papà che ci aspettava trepidante a casa.
Chiamai subito mio marito al lavoro, ovviamente era felicissimo ma pronunciò subito la frase che mi avrebbe ripetuto per almeno le successive 12 settimane “bene, ma mi raccomando piedi per terra”, lo so, sembra poco romantico, ma in casi come questo più si vola alto coi pensieri ed i progetti e più ci si fa male se disgraziatamente si cade.
Potrei raccontare per ore le lacrime di mio padre (in genere uomo tutto d’un pezzo) e le reazioni di tutte le persone che ci erano state vicine, momenti che porterò sempre nel cuore. Da quel momento iniziò la spasmodica attesa per la prima ecografia, dovemmo aspettare una ventina di giorni, nel frattempo passavo le giornate sul divano a coccolarmi il pancino che iniziava a crescere.
Quando la ginecologa inserì l’ecografo si stava parlando di lettura e del fatto che con un figlio piccolo lo spazio per leggere un libro è assai ridotto, quando disse “bhè mi sa che lei non avrà più tempo di leggere per molti anni visto che qui ci sono due cuoricini pulsanti” io e mio marito eravamo in lacrime, quello sfarfallio sul monitor era quanto di più bello e miracoloso avessimo mai visto e molto di più di quanto potessimo desiderare.
Devo ammettere che me lo sentivo avessero attecchito entrambi, lo dissi da subito a mio marito e in effetti anche lui non ne rimase particolarmente stupito, eravamo solo tanto felici. Tuttavia, purtroppo, all’ecografia successiva l’amara sorpresa: una delle nostre stelline non aveva più battito, anzi, stava già regredendo autonomamente, uno dei nostri puntini se ne stava andando senza creare problemi…però la buona notizia era che l’altro cresceva perfettamente, i parametri ecografici corrispondevano alle settimane di gestazione quindi non c’era motivo di pensare che potesse andare male, così disse la ginecologa, facile da dirsi, ma per noi fu davvero una brutta notizia che ci mise ancora più ansia nonché tanta tristezza.
Fortunatamente, da lì in avanti, la gravidanza è stata in discesa: fisicamente non ho avuto grossi problemi, le altre ecografie andarono benone e scoprimmo con gioia di aspettare una bambina che diventò da subito la nostra principessa.
Irene è nata alla trentanovesima settimana, sono arrivata in ospedale dilatata di 9 cm.
Dopo tre ore scarse di travaglio in casa e alle 5.32 del 21 giugno 2012 la nostra principessa ha visto finalmente la luce per la gioia infinita di mamma e papà che si sono innamorati persi di lei al primo sguardo
. Un amore totale, incondizionato ed infinito, difficile da descriversi a parole, un amore che ci ha cambiati radicalmente e ci ha fatto dimenticare in un lampo tutte le difficoltà del passato. La piccolina si è dimostrata da subito una gran mangiona, le prime settimane era capace di stare attaccata al seno 18 ore su 24 e non esagero, desiderava il contatto con la sua mamma non solo per alimentarsi ed io, felicemente, assecondavo questo suo bisogno che, in realtà, era anche il mio.
Lo svezzamento ai sei mesi di vita si è dimostrato, da subito, assai difficoltoso: la piccola rifiutava caparbiamente qualsiasi pappa e alla sola vista del cucchiaino piangeva disperatamente, pertanto, il seno della mamma continuava ad essere la sua unica fonte di cibo; l’allattamento, che per me è stata un’esperienza meravigliosa, mi assorbiva ancora parecchio visto che il numero di poppate giornaliere (e ahimè notturne) non accennava a diminuire.
Nel frattempo mio marito ed io, superato lo sconvolgimento totale dei primi mesi quando spesso, per esempio, si mangiava a turni e si viveva solo in funzione degli orari e delle esigenze della piccola, iniziavamo a riprendere una vita “normale”. Anche dal punto di vista sessuale cominciavamo a ritrovarci, chiaramente i punti del parto prima e la privazione del sonno dopo (nonché i pianti improvvisi della piccola nei momenti clou) non ci avevano aiutato, ma pian piano stavamo ritrovando la nostra intesa quando mi resi conto che avevo degli strani sintomi.
Era fine marzo 2013, mi capitava di svegliarmi nel cuore della notte con una fame tale da dovermi alzare immediatamente per cercare qualsiasi cosa di commestibile da divorare, avevo sbalzi di umore fantozziani e strani doloretti al basso ventre.
Un sabato mattina mi alzai col pensiero di “riesumare” uno dei test di gravidanza dall’armadietto dei medicinali, ovviamente ero certa sarebbe stato negativo, ma in cuor mio serbavo una speranza, timidissima visto che stavo ancora allattando inibendo, molto probabilmente, l’ovulazione e poi dove la mettiamo l’endometriosi severa? E i nostri trascorsi clinici?
Decisi di seguire comunque il mio istinto e, mentre mio marito cambiava il pannolino a Irene, feci il test di gravidanza appoggiandolo sul davanzale della finestra del bagno, o forse dovrei dire abbandonandolo visto che andai a preparare la colazione e vestire la piccolina. Niente attesa davanti a quelle due finestrelle dispettose questa volta, avevo ben altro di cui occuparmi!Tornai dopo qualche minuto e vidi quella famosa linea rosa, mi stropicciai gli occhi pensando di essere ancora addormentata, girai il test tra le mani per qualche secondo e, frastornata ma felicissima, chiamai mio marito e gli dissi “amore abbiamo un problema” brandendo il test tra le mani; lui, sgomento, ma lucido mi chiese diretto se fossi incinta e io risposi che “boh pare proprio di sì”.
Test positivi non ne avevo mai visti in tutta la mia vita quindi faticavo a crederci che stesse succedendo davvero a noi. Non dimenticherò mai la sua riposta che fu “ahhhh uhmmm bene, ma come abbiamo fatto?”
io iniziai a ridere e gli spiegai, prendendolo in giro, che i bambini possono arrivare anche facendo l’amore e non solo grazie alla “cicogna provetta”.
Guardammo Irene e, per un attimo, alla felicità si sostituì la preoccupazione: capimmo al volo cosa stessimo pensando entrambi, avremmo inevitabilmente tolto delle attenzioni alla nostra cucciola che aveva solo nove mesi e questo ci faceva sentire piuttosto in colpa nei suoi confronti e, se devo essere sincera, questo pensiero ci accompagna ancora adesso che sono, ormai, giunta al nono mese di gravidanza, nel mio pancione fa le capriole il piccolo Ivan che è il nostro miracolino e non vediamo l’ora di abbracciare.
L’esperienza della maternità e della paternità sono indescrivibili a parole, non basterebbe un libro intero per spiegare quante emozioni ci ha regalato Irene in questi primi 16 mesi con noi, la nostra vita è incredibilmente cambiata e migliorata (ma forse questi sono termini riduttivi) dal momento in cui me l’hanno appoggiata sul seno appena nata e mio marito, piangendo come un vitello (così ricorda lui), le ha tagliato il cordone ombelicale sussurrandole “ti proteggerò sempre”.
Il pensiero di poter rivivere queste emozioni tra qualche settimana ci riempie il cuore di gioia e spazza via ogni timore, anche perché siamo consapevoli che un figlio o, nel caso di Irene, un fratello è il dono più prezioso si possa ricevere e noi ci sentiamo dei privilegiati ad esser stati così fortunati perché, quello che per tante persone è la normalità, per noi sembrava solo un sogno quindi ci godiamo e viviamo appieno ogni singolo attimo della gravidanza, ogni ecografia, ogni singhiozzo, ogni calcetto e poi, non da meno, ogni progresso e sorriso dei nostri bambini, il regalo più grande che la vita potesse farci.
di Daniela
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