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Adozione internazionale: ecco che cosa significa

di Raffaella Clementi - 06.03.2014 - Scrivici

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Con le lacrime agli occhi, ho letto la lettera di una cara amica che, non sentivo e non vedevo da qualche tempo. Ci siamo frequentate a scuola, poi ci siamo perse di vista. Ritrovandoci io le ho parlato della mia storia, lei della sua. Quando si vivono dolori simili, si è empaticamente più ricettivi, si comprendono meglio le cose non dette, anche quando non ti guardi direttamente negli occhi. Lei, come me ha provato la fecondazione in vitro. A differenza di me, lei non è riuscita ad avere figli. Malgrado non abbia avuto figli che le siano venuti dalla pancia,

ha figli che le sono entrati dalla porta. Lei, i suoi figli, li ha cercati tanto perché, già c’erano, è solo andata a prenderli dove la stavano aspettando.

 

Non è il primo racconto che vivo sull’adozione, eppure, non ho mai sofferto come, sentendo il suo.

 

Per avere il decreto di idoneità all’adozione, lei e suo marito (come tutte le coppie che decidono di adottare) hanno dovuto sopravvivere ad un anno di incontri con i Servizi Sociali, con gli psicologi, per poi avere anche l’idoneità del paese da cui provengono i bambini, in caso di adozione internazionale.

 

A questa fase è poi seguita quella delle dichiarazioni sullo stato patrimoniale, dei redditi lavorativi, delle foto della casa e della futura cameretta. C’è stata dopo la fase della cosiddetta parte medica, ovvero i certificati che attestavano il loro stato di salute.

 

Ovviamente, Lei racconta che, non bastano quasi mai i certificati italiani, ma servono sempre anche quelli degli specialisti del paese di provenienza del bambino per ragioni di ordine economico.

 

E’ orribile doverlo ammettere ma, le adozioni, specialmente quelle internazionali, muovono un giro di denaro, enorme. Basti pensare solo ai viaggi dei genitori e alla permanenza degli stessi nei paesi scelti. O alla spesa per le scartoffie burocratiche, o al costo delle associazioni che si occupano di gestire le pratiche.

 

Poi, il momento tanto atteso. Il momento dell’incontro e della conoscenza con il piccolo.

 

Te lo vedi arrivare tenuto per mano, o in braccio a un’assistente, con il mocciolo che scende dal naso, spaurito e indifeso. E non si può chiedere aiuto a nessuno. Si deve decidere se adottarlo o no.

 

Dopo solo tre giorni.

 

E malgrado si arrivi a quel punto preparati da corsi, consigli, relazioni, incontri, in realtà, non si è mai preparati all’incrocio di quegli occhi.

 

Ed è come per un parto naturale.

Quando si guarda per la prima volta il proprio figlio. Senza conoscerlo, lo si riconosce.

 

E si dimentica tutto il resto, si dimentica come si è arrivati fin lì.

 

Dopo l’udienza con il giudice, si può tornare a casa con quel figlio sognato e cominciare con lui a vivere la vita.

 

Ma dovrai sempre mandare una relazione sull’andamento delle cose. (LEGGI ANCHE: Adozione, la mia gravidanza durata due anni)

 

Ecco, ho voluto raccontare il resoconto della mia amica perché, chiunque, davanti alla scelta di ricorrere a una fecondazione in vitro, non dica più “perché, scegli questa strada, anziché adottare?”, ma pensi bene prima di parlare.

 

Perché chiunque sospetti che i figli biologici siano amati più di quelli adottati, sappia quale corbelleria stia affermando e provi vergogna.

 

Perché ci si renda conto, davvero, di che dono sia la maternità, di qualunque tipo essa sia.

 

Perché, ogni mamma che stringa forte il suo piccolo, sia davvero consapevole, di quanto sia fortunata.

 

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Sull'autrice

 

Raffaella Clementi è autrice di ‘Lettera a un bambino che è nato‘, un libro-diario in cui racconta la sua esperienza personale di fecondazione assistita fino alla nascita del figlio.

 

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