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Ipertensione essenziale e parto prematuro. Sono mamma di un guerriero

di mammenellarete - 03.02.2021 - Scrivici

prematuro
Fonte: Shutterstock
Soffro di ipertensione essenziale e questa problematica mi ha dato molti problemi nel corso della gravidanza. Ho avuto un parto prematuro: il mio Francesco è venuto al mondo più di due mesi prima del previsto. Quello che mi è accaduto mi ha cambiato tanto e mi ha reso la mamma orgogliosa di un super guerriero.

In questo articolo

Mi chiamo Luciana e sono la mamma di un bimbo nato 4 anni fa. La mia è stata una gravidanza cercata e arrivata in breve tempo. Avevo 29 anni e una patologia cronica, che però non mi aveva dato mai particolari problemi. Soffro di ipertensione essenziale, cioè senza nessuna causa al di fuori della familiarità genetica. L'avevo scoperto per caso a 23 anni, quando il medico sportivo mi aveva misurato la pressione durante una visita per rilasciarmi il certificato di sana e robusta costituzione per l'iscrizione in piscina.
 
Da allora prendo una pasticca al giorno, un betabloccante che agisce anche rallentando i battiti cardiaci. Non avrei mai immaginato che la pressione alta potesse in gravidanza darmi così tanti problemi. Durante la prima visita la ginecologa decise di sospendere immediatamente la mia terapia anti-ipertensiva perché il farmaco che prendevo ormai da 6 anni era incompatibile con lo sviluppo del feto e pericoloso per la sua salute.
 
Mi diede un farmaco in sostituzione, il più conosciuto e utilizzato in questi casi. Il cambio della terapia per me fu veramente pesante. Iniziai da subito a star male: avevo continui mal di testa, tachicardia, pressione alta. Mano a mano che passavano i giorni aumentavamo il dosaggio. Arrivammo in breve a triplicarlo. In contemporanea aggiunse l'aspirinetta, ma nonostante i continui controlli non mi sentivo bene, i valori della pressione erano sempre alti ed ero in uno stato perenne di agitazione dato dalla tachicardia.
 
Decise così di mandarmi in consulto da colui che fu il suo professore di Patologia Ostetrica all'Università, un luminare nel campo. Il professore decise di seguirmi per tutta la gravidanza. Mi segnò immediatamente punture di eparina, una al giorno, e modificò la mia dieta alimentare. Disse che dovevamo fare in modo che il bimbo prendesse più peso possibile perché "Signora, sa cosa rischia?". "Veramente no". "Gestosi, trombosi. Se si dovessero verificare dovrà partorire indipendentemente dalla settimana di gestazione, che sia a 25 o a 35 settimane". Non chiesi altro, non feci domande.
 
Non so perché e molte volte me ne sono pentita, magari sarei stata più preparata a quello che avrei dovuto affrontare dopo. Non chiesi cosa sarebbe accaduto in caso di parto prematuro. Ero fiduciosa sarebbe andato tutto bene e che, se in caso la situazione fosse peggiorata, avremmo trovato il modo di affrontarla un passo per volta, magari con un ricovero o ulteriori cure, comunque convinta avessi a disposizione il tempo necessario per fare le cose con calma.
 
Invece la situazione precipitò rovinosamente, una fredda mattina di febbraio. Ero a 31+1 settimane di gestazione. Francesco sarebbe dovuto nascere a fine aprile ed era appena il 20 febbraio. Sentivo la pancia pesante, tesa come un tamburo, mi sentivo stanca. Avevo fastidi al basso ventre. Ero comunque a casa da mesi per gravidanza a rischio, quindi non è che facessi chissà quali attività o sforzi. Provai a chiamare il professore, ma lui non rispose, gli lasciai un messaggio, la pressione era sempre border line, con valori al limite.
 
Dopo pranzo decisi di stendermi un pochino a letto e riposare. Mio marito che di solito lavora fuori città, quel giorno era a casa perché doveva sistemare l'impianto elettrico nella futura cameretta di Francesco, ancora da pitturare e sistemare, tanto mancavano più di due mesi al parto. Mi addormentai. Dopo nemmeno 20 minuti mi svegliai con la sensazione di essere bagnata tra le gambe. Scostai il piumone e vidi solo sangue. Ero in piena emorragia. Iniziai a urlare e piangere.
 
Mio marito accorse, provai a richiamare il ginecologo che mi disse di precipitarmi al pronto soccorso, che lui era lì e mi aspettava. Prima di riagganciare mi chiese da dove partissi. L'ospedale distava 40 minuti da casa mia. Mi disse: "Signora vi dovete fermare prima, al primo pronto soccorso, qui da me non arriverete in tempo". In 15 minuti infrangendo ogni limite di velocità, con le 4 frecce, in pigiama e con il braccio fuori dal finestrino per fare spostare le macchine, raggiungemmo il primo ospedale utile.
 
Arrivai al pronto soccorso e venni catapultata nel reparto di ginecologia. Dopo una veloce ecografia e pochissime domande il medico di turno disse: "Lo dobbiamo tirare fuori". Da lì il mio cervello si spense. Non chiedetemi come da quella piccola stanza io sia arrivata in camera operatoria perché non lo ricordo. Ricordo solo una decina, forse una dozzina tra ostetriche, anestesiste, neonatologi, ginecologi, oss che correvano da tutte le parti, preparavano i ferri, mi spogliavano di tutti i vestiti.
 

La nascita del mio Francesco

Io urlavo e piangevo, mio marito era fuori la camera operatoria. Si avvicinò un'ostetrica dolcissima, mi prese il viso tra le mani e mi disse: "Mi chiamo Cinzia, ora devi dormire, pensa a qualcosa di bello!". Le risposi che non mi veniva niente di bello in mente, mi disse: "Come no? Chi deve nascere?". "Francesco", risposi io. "Quando ti risveglieremo ci sarà Francesco". E Francesco nacque così di 1,9 kg.
 
Lo vidi appena, di sfuggita perché non ero lucida, e mi dissero che stava arrivando un ambulanza a prenderlo per portarlo in un altro ospedale, più attrezzato. Aveva bisogno di un reparto di terapia intensiva neonatale. Io sarei rimasta lì. Mio marito faceva casa, ospedale da me, che distava 40 km, ospedale dove era ricoverato lui, che ne distava altri 30, due volte al giorno. Lo vidi la prima volta 5 giorni dopo la nascita quando fui dimessa dal mio parto cesareo.
 
L'impatto emotivo di quell'incontro fu devastante. Un corpicino nudo attaccato alle macchine, pieno di fili che mi impedivano anche di vederne bene il volto. Lottò per restare tra noi. L'emorragia fu causata da un distacco di placenta, molto probabilmente causato da un picco di pressione alta. Francesco passò il primo mese della sua vita in quel reparto. Non respirava da solo, non faceva cacca se non aiutato, non si alimentava da solo.
 
Gli infilavano un sondino in bocca, fino allo stomaco e gli mandavano giù il latte, il mio latte, perché nonostante tutto riuscì poi ad allattarlo per 13 mesi. I primi giorni la sua poppata era di appena un cucchiaino di latte. Successivamente lo portammo a casa, ma dopo 15 giorni di nuovo in emergenza corremmo presso un celebre ospedale di Roma per un'apnea con cianosi... A volte ancora faticava a respirare, soprattutto mentre mangiava.
 
Io ero sempre tesa, con i nervi a pezzi. Il mese successivo arrivò anche il terzo ricovero, per un'infezione, sempre all'ospedale romano. Il primo anno fu molto duro, ma lui sbocciò come il più bello dei fiori. Oggi ha quasi 4 anni. La mia pressione continuò ad essere fuori controllo per tutti i mesi successivi. A 13 mesi dopo molte insistenze da parte dei medici posi fine all'allattamento per poter tornare alla mia terapia anti-ipertensiva, quella che prendevo prima della gravidanza.
 
La frase che mi fece scattare la molla fu quella di un cardiologo che mi disse: "Meglio un bimbo senza latte di mamma che un bimbo senza mamma". Non ero una fanatica dell'allattamento, non lo facevo chissà per quale motivo particolare, ma Francesco, che passava tutte le notti da solo in terapia intensiva, per la maggior parte del tempo doveva stare attaccato alle macchine. Avevo scoperto che l'allattamento ci permetteva di passare un pochino di tempo in più pelle a pelle, che appena gli infermieri me lo poggiavano sul petto i suoi battiti rallentavano, la saturazione migliorava, che attaccato al seno riusciva anche a fare cacca e che mangiava molto di più di quanto mangiasse al biberon.
 
Avevo letto che attraverso il latte materno era possibile mandargli gli anticorpi che non gli avevo potuto dargli negli ultimi due mesi di gravidanza. Era anche un modo per riappropiarmi del mio ruolo di mamma perché in reparto non mi era possibile prendere nessuna iniziativa o avere una qualche voce in capitolo, dovevo affidarmi ai medici e agli infermieri per qualsiasi cosa, invece almeno quella, era una cosa solo mia, solo nostra. Gli infermieri poi mi proposero di donare l'eccedenza alla Banca del Latte, che usa il latte materno solo per bimbi estremamente prematuri e particolarmente bisognosi.
 
Ne sfamai altri 8 oltre a mio figlio. Fu una grande soddisfazione per me, una delle più grandi della mia vita. Successivamente quando la situazione si stabilizzò dopo mesi a casa, sentii il bisogno di seguire un percorso di psicoterapia per elaborare questo vissuto pesante e doloroso. Mi sono avvicinata anche alla Onlus "La Cicogna Frettolosa", che opera all'interno della terapia intensiva neonatale dell'Ospedale Fatebenefratelli di Roma, Isola Tiberina, dove Francesco ha vissuto il primo mese della sua vita. Oggi ne sono una volontaria attiva.
 
Portiamo avanti progetti e raccolte fondi a sostegno dei piccoli ricoverati e delle loro famiglie. Mi sono chiesta spesso perché, perché ho dovuto vivere un parto così e tutto il resto. Poi ho capito che la domanda da pormi non era perché, ma dove. Dove mi ha portato tutto questo? Mi ha portato a conoscere tante realtà di cui non sapevo nemmeno l'esistenza, mi ha portato ad aiutare tante altre mamme che hanno vissuto la stessa esperienza dopo di me. Mi ha portato a conoscere tanti professionisti di una bravura e un'umanità unica. Mi ha spinto oltre ogni limite di sopportazione fisica e psicologica. Mi ha fatto rivedere e stravolgere le priorità della vita. Mi ha cambiata tanto e mi ha reso la mamma orgogliosissima di un super guerriero.
 
di Luciana
 
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