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Soffrivo di un disturbo mentale. E sono rimasta incinta

di mammenellarete - 17.03.2015 - Scrivici

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Mentre io pensavo di morire, cresceva in me la ragione del mio vivere. Ero depressa, soffrivo di un disturbo mentale. Migliorando, iniziò a tornarmi la voglia di avere un figlio. Non so come feci, ma assecondai il mio desiderio. E rimasi incinta. Questa è la mia storia. Il mio racconto. La mia rinascita.

Soffrivo di un disturbo mentale, ero in cura, prendevo dei farmaci e andavo assiduamente da uno psicanalista. Il mio percorso era lungo e tortuoso, io ne ero a metà, spaventata e fragile mi aggiravo tra le piante piene di spine e gli animali feroci e senza pietà. Sapevo che più in là c’era uno spiraglio, potevo scorgerlo, ma era ancora troppo lontano, e io troppo debole per raggiungerlo. Avevo bisogno di sostegni, di mani alle quali aggrapparmi, anche se, per quanti aiuti potessi ricevere, ero sola con il mio male. Le mie ossessioni erano reali per me, ne ero vittima. L’angoscia era la mia compagna che odiavo e che non mi voleva lasciare. Non accettavo il mio stato, avrei voluto respirare la fresca aria intorno a me, invece ero piena di afa e soffocavo. I farmaci mi aiutarono. Le mie risorse erano tante, potevo farcela, dicevano i dottori. Ma il cammino davanti a me era ancora lungo.

Migliorando, iniziarono ad emergere i miei desideri. Già, desiderare era fondamentale. Chi è depresso non desidera. Iniziò a tornare la voglia di avere un figlio, il mio potente istinto materno si affacciò come una bambola dolce e curiosa di venire a prendermi. Non so come feci, quanta poca saggezza si impadronì di me, ma assecondai il mio desiderio. E rimasi incinta. Un misto di gioia e paura mi albergarono dentro. Ero ancora fragile, ma davanti all’esito positivo del test di gravidanza poggiato sulla lavatrice una mattina di settembre, mi resi conto che ormai era fatta.

Avevo ragione ad avere paura, non potevo sospendere i farmaci, ma ormai dovevo. Avevo passato giorni davanti al computer per informarmi sull’assunzione di psicofarmaci durante la gravidanza, e i medici mi confermarono quanto letto: nel primo trimestre i farmaci erano vietati, o comunque assumerli comportava dei grossi rischi.

E io, dei rischi a mio figlio, non li volevo dare. Mi ero messa io in quella situazione, che già era complicata. Perché mai? Forse volevo mettermi alla prova? Come avevo potuto? Ed ora? Sospesi i farmaci, di colpo. Ed ebbi sintomi di sospensione pesanti, per alcuni giorni: nausea, giramenti di testa, corpo freddo, battiti del cuore veloci, ansia. Malessere fisico e psichico, ma era solo l’inizio.

I sintomi fisici passarono, ora il corpo rispondeva bene. Ero come in bilico, passavo le giornate ovattata, paurosa di un attacco che non avrei potuto fermare con nessun farmaco. Timorosa trascorrevo le giornate passivamente, andavo avanti in modo meccanico, non godendo nemmeno un secondo della mia gravidanza, ma sperando che i mesi passassero, tra visite e tutto ciò che accade nella vita, ma che scorreva davanti a me come un film già visto.

Purtroppo l’attacco arrivò, terribile. Ci sono momenti in cui incontri il nero in cui puoi solo perderti e dove non c’è suolo su cui poggiare i piedi né strada da seguire. In quel nero mi trovai, era tornato il panico a trovarmi ed ora ero più fragile dell’ultima volta e con un bambino dentro al quarto mese di gravidanza. Io non so come feci a resistere per così tanto tempo. Fino al settimo mese resistetti senza farmaci. Ricordo le notti completamente insonni, la mattina mio marito mi trovava in lacrime, mi abbracciava, io non sentivo le sue braccia. Io non sentivo niente, solo dolore. Non riuscivo a mangiare.

Ricordo il giorno del mio compleanno, ormai ero quasi al settimo mese di gravidanza. Mio marito mi portò al ristorante. Io mangiavo e davanti a lui fingevo di essere contenta di quel gesto, per non farlo rimanere male. Ricordo di aver detto di andare in bagno, l’aria calma con cui mi diressi verso la toilette, poi la porta chiusa a chiave, io che vomitai l’impossibile, poi seduta per terra, distrutta.

Stavo così male che arrivai a pensare che ogni giorno fosse l’ultimo, per me. Mi consolava il pensiero che il bambino a sette mesi di gravidanza lo avrebbero potuto far nascere, mi tormentava il fatto che sarebbe cresciuto senza una madre, e gli avrebbero raccontato che era una donna fragile, malata, senza coraggio, che si era lasciata morire. Può apparire senza senso quello che scrivo, ma senza senso era quello che provavo, ero di nuovo malata, calata nella malattia e persa. Io non so come feci, io non lo so. Ma una piccola forza in me ci fu se io resistetti fino al nono mese. E ora so che quella “piccola” forza si chiama amore. Allora non la riconoscevo, eppure non mollavo. No, non mollai.

Arrivò il nono mese, il mese di maggio, quando nascevano i fiori e tutto profumava di vita. Una volta amavo la vita, amavo la primavera, era la mia stagione preferita. Invece mi ritrovavo con un pancione enorme, enormemente fragile io. Ricordo che sognavo di notte di perdere il bambino e di provare sollievo. Mi svegliavo piena di sensi di colpa. In quel giorno che di nuovo mi sembrava l’ultimo. Allora non sapevo che ce l’avrei fatta. Allora non sapevo che l’amore è più forte di ogni dolore. Allora non sapevo. Ora so, e ve lo racconto.

Arrivò il giorno. Arrivarono le contrazioni. Era l’alba, e quella notte non avevo dormito. Anzi una delle notti peggiori. Arrivai in ospedale, iniziò il travaglio. I dolori erano atroci. Arrivata ero già a sei centimetri di dilatazione. Mi dissero che a breve sarebbe nato, invece passavano le ore e non nasceva. Le ostetriche, quelli intorno a me non sapevano del mio inferno. Io non ce la feci e chiusi gli occhi, non svenni davvero, ma ricordo che li chiusi e mi lasciai andare.

Non ce la facevo. Loro mi iniettarono dell’ossitocina, mi chiamavano… sentivo il mio nome, ma io volevo solo morire.

Eppure ecco le contrazioni più forti, gli occhi aperti, grida, urla, la natura mi spingeva a svegliarmi, c’era lui. Si, lui era un maschietto. Si, lui c’era stato da nove mesi ma io non l’avevo mai sentito. Lui nacque, pesava più di quattro chili, era bellissimo. Lo guardavo incredula, silenzioso tra le mie braccia, lo riempivo di bacetti, quasi a scusarmi di tutto, della mamma fragile che aveva e che non meritava qualcosa di così bello.

Il primo giorno lo tennero in osservazione perché gli ultimi due mesi avevo assunto antidepressivi e aveva problemi al respiro o qualcosa del genere. Ovviamente non lo potei allattare, dovevo prendere i miei farmaci. Vissi con dolore quella rinuncia. Sentivo che lui voleva il mio seno, il mio latte, invece dovevo dargli quel freddo biberon. Mi sentivo uno schifo. Mi diedero delle pastiglie per perdere il latte; all’inizio non le volli, ma ebbi la montata lattea e dovetti intervenire.

Una volta tornati a casa, non so come, ebbi una seconda montata lattea. Quel latte era desiderato dal mio bambino e da me. Ma non potevo. E non potevo nemmeno permettermi di lamentarmi, ripetevano i dottori, già mi era andata troppo bene. Fu dura riprendermi, tanto dura. Ma ce la feci, e ora sto bene. Il mio bambino ha tre anni e io so che è il simbolo della mia forza in tanta fragilità.

Mi chiedo come possa esser nato da tanta sofferenza, e trovo risposta solo guardando il cielo e afferrando un senso al di là della mia comprensione. Di sicuro il motore di tutto questo è l’amore. Ho creduto di mollare ogni giorno, ma non ho mollato.

Ho pianto, ma stringendo i denti. Ho vomitato, ma dopo ho mangiato di nuovo, perché il mio bimbo doveva crescere.

E ora lui è vivo, vivo a ricordarmi che mentre io pensavo di morire, cresceva in me la ragione del mio vivere.

(la mamma che ha scritto questa storia ha preferito rimanere anonima)

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