In occidente ''la nascita sotto le 25 settimane di gestazione e' considerata una 'zona grigia' in cui le cure dovrebbero avvenire eccezionalmente, secondo alcuni, solo con l'accordo dei genitori, nonostante che sin dalla ventiduesima settimana sia possibile in misura sempre maggiore la sopravvivenza''.
Il quotidiano mette in guardia sulla possibilità di un futuro in cui la scelta se rianimare o meno un neonato prematuro possa essere basata sulla possibilità che questo sia disabile.
Secondo l’Osservatore romano non bisogna confondere la rianimazione con l’”accanimento terapeutico”.
Paragona i prematuri agli adulti che hanno avuto un infarto o un ictus, persone che “nessuno si sogna di non curare. La non rianimazione del piccolo paziente genera problemi anche a livello scientifico. In primo luogo perche' al momento della nascita non si può avere certezza sulla prognosi.
Nessun adulto si vedrebbe sospendere le cure se la prognosi non fosse certa e nessuno penserebbe di non provare ad assisterlo se le possibilita' di successo fossero le stesse dei bambini prematuri. Nessuno infine penserebbe di non rianimare un adulto per ''alleggerire'' il peso ai familiari. Almeno per ora''.
Secondo l’autore il comportamento dei medici potrebbe riflettere le loro paure piuttosto che la realtà.
''Si tratta di scegliere se trattare i neonati come cittadini oppure subordinare il loro trattamento alle nostre ansie o al mito della ''qualita' della vita'', facendo bene attenzione a un fatto: le ansie sono spesso irrazionali, ma il mito della ''qualita' della vita'' finisce per diventare un alibi per la politica, che invece dovrebbe favorire il benessere dei disabili e delle loro famiglie''
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