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Tre aborti dolorosi. Un'amica mi ha insegnato a guardare avanti

di mammenellarete - 09.10.2020 - Scrivici

donne
Fonte: Shutterstock
Dopo tre dolorosissimi aborti, sono riuscita a ritrovare la speranza grazia ad un'amica speciale, una ragazza africana conosciuta in ospedale. Non mi sono arresa, mai, come mi ha insegnato lei. "Mamma africana e mamma italiana, il dolore non si pesa".

In questo articolo

Essere già mamma di una signorina, mi rendeva già felice, soddisfatta. Nel profondo, nonostante questo, sognavo di poter nuovamente tenere fra le braccia un neonato, allattarlo, coccolarlo, sprofondare nei suoi primi sorrisi, i primi passi. Sarebbe stato diverso, questa volta non volevo, a causa del lavoro, mettere nuovamente in panchina il mio desiderio.

Ritengo che molte donne riescano bene a conciliare lavoro e famiglia, io probabilmente, nonostante i miei studi e il tipo di lavoro, desideravo solo fare la mamma, per molti può sembrare banale o riduttivo. Succede, quando hai già dato parte della tua giovinezza nel lavoro e vorresti investire le tue energie in altro.
 
Dopo il primo aborto, veloce, rapido, doloroso e inaspettato, vorrei soffermarmi su quello più forte per me, che probabilmente, poi ha forgiato la nuova "ME"… il secondo aborto e la conoscenza di una nuova realtà. Quante volte, soprattutto a chi ha avuto delle perdite, soprattutto la prima volta, dicono: "Succede dai, fatti forza! Una bimba ce l'hai, non crogiolarti nel dolore, potrai riprovare e andrà bene!".
 
Ecco queste persone, credono di fare bene, ecco, farebbero bene a farti solo una carezza, senza parlare. Non parlate per dire ovvietà dolorose, basterebbe il silenzio. Quando sei nuova, nel caso di dolori di questo tipo credi fermamente che possa essere una roulette russa, che purtroppo ha colpito te. Qualcuna deve per forza prendere...
 
Il mio secondo aborto mi ha messo ko. Dopo pochi mesi dal primo mi ritrovo nuovamente, un mattino, con nausea e giramenti di testa, panico. Ho il dubbio di essere nuovamente incinta! Penso sia un segnale, forse merito di essere felice, presto le mani tremanti e gli occhi increduli leggono "incinta 1-2", che paura, che felicità!
 
Al secondo aborto, forse, si ha ancora speranza, poi, dalla terza volta in poi, tenere il test positivo in mano è un supplizio. Il tempo passa, inizio ad accarezzare l'idea, non ho disturbi o perdite, segnali che possano far presagire qualcosa di nefasto. Dopo due giorni manca circa una settimana alla visita fissata con quella che all'epoca è la mia ginecologa, successivamente, pure lei getta con me la spugna.

Tre aborti, la mia esperienza

Mi ritrovo una mattina, in modo inaspettato, le mutandine con una chiazza rossastra. E' un giovedì pomeriggio, lo ricordo ancora, non ho coraggio di guardare con attenzione o approfondire. Mi organizzo e corro in Ospedale, mi faccio accompagnare da mia madre, mio marito mi raggiunge dopo.
 
In ospedale spiego la situazione, mi chiedono delle beta e sembrano perfette, chiedo informazioni sulla chiazza di sangue e mi dicono che piccole perdite è normale averle. Si definiscono da "impianto", perché il feto a volte scava per rendere il nido accogliente. Mi rimbombano quelle parole, ancora. Il clima torna sereno, mi vogliono solo vistare, mi sento stranamente rassicurata.
 
Perfetto, penso, finalmente! Mi faranno sentire il cuoricino e tutto si sistemerà, penso. Il ginecologo mi fa stendere e il mio cuore scoppia. Appena messo lo strumento, si gira verso mia madre, come se io non fossi presente in quella stanza e inizia a chiedere se in famiglia esistono casi di trombosi, diabete, glicemia, disturbi pressori. Purtroppo tutte risposte affermative, con desolazione di mia madre, che difficilmente sa contenere le emozioni.
 
Nel frattempo io fisso lo schermo, lui mi rassicura, dicendomi di stare serena, probabilmente è un problema dell'apparecchio e al piano di sopra scioglieremo ogni dubbio. Mi dice di stare serena, che è quasi sicuro che la causa è solo lo strumento, che ha problemi di suono. Ma quel "quasi" cambia la vita a tutti.
 
Penso, mentre salgo l'ascensore con il medico e mia madre, che non posso uscire dall'ospedale senza sentire il battito. Non avrei pensato mai che sarebbe stato l'esito più nefasto. Il medico chiama il collega, vedono una massa, non capiscono, optano per quello che state pensando e che non riesco nemmeno a scrivere. Discutono se si tratti di embrione e massa attaccati, non si parla più di battito o feto, arrivano a confrontarsi beatamente davanti a me, mentre io, impaziente, ingoio le lacrime.
 
Scosto la mano di una povera ostetrica che cerca di accarezzarmi, intimandola di farmi ascoltare e non distrarmi. Decidono il ricovero immediato, diagnosi: "Sospetta gravidanza extrauterina, caso da monitorare, assenza di battito, embrione probabilmente attaccato alle tube, con possibilità di estrarre una o tutte e due".
 
Non vi faccio nemmeno pensare a come mi sento in quel momento, devo essere lucida, i miei devono recuperare la bimba all'asilo, non mi viene concessa, nemmeno per un momento, l'elaborazione del lutto.
 
Sono per me i giorni peggiori, quello che è più umiliante e doloroso è che altre mamme e amiche cerchino di consolarmi, usando le solite frasi di rito. Addirittura mi consigliano di fermarmi poiché secondo loro non riesco a portare avanti le gravidanze. Le peggiori nemiche delle mamme sono le altre mamme, quelle che non sanno cosa sia l'attesa, il dolore, la perdita. Sensibilità zero, quelle, infatti, amiche non lo sono più, per mia fortuna.
 
Quanto dolore, contrazioni fortissime... e dopo due giorni, nel bagno, lascio andare quello che è il mio sogno. I dottori mi rassicurano e mi dicono dopo che non si è trattato di una massa maligna, che le tube sono integre, che l'embrione mi ha voluto bene e che mi ha lasciato senza danneggiare nulla. Che magra consolazione.
 
Trovo conforto soltanto nel parlare con una ragazza africana, si chiama Queen, è ricoverata da più giorni, le stanno praticando l'aborto terapeutico, non c'è speranza: il bimbo cresce ogni giorno di più nella tuba sinistra e lei sta rischiando la vita.
 
Anche lei ha trovato conforto in me, le prometto che l'aiuterò ad inserirsi nel mondo del lavoro, una volta uscita dall'ospedale. In seguito l'ho fatto: lei è diventata mamma prima di me, felicemente, con un altro uomo, un italiano. Il suo, di uomo, l'ha lasciata per una sua amica, con meno problemi di fertilità.
 
Ho imparato a conoscere il suo punto di vista, soffriva, ma mi diceva che già in Africa le era capitato, che succede, che bisogna provare, tanto arriva, è solo questione di pazienza. Mi ha detto che dovevo imparare ad essere forte, più saggia, a lasciare in disparte chi non crede che la vita sia un dono. Anche i doni vanno sudati.
 
Quante storie africane ho ascoltato, strane ma interessanti, assurde ma nella loro semplicità, vere. Ogni giorno, ci siamo confrontate su visite, esami da fare, ecc. Questa ragazza mi ha capito più di qualsiasi amica. Mi ritrovo ad esserle vicina, soffriamo ma in modo diverso e ognuna rispetta i tempi e il dolore dell'altra. Io la chiamo Rosa, le dico che le dona come nome e lei sorride, dicendomi che va benissimo.
 
Passa un po' di tempo, torno a casa, con il cuore spezzato, il corpo provato e totalmente vuoto. Essermi aperta mi ha fatto capire che Rosa ha ragione, non devo arrendermi, in fondo la vita è lunga, voglio viverla, ancora, a modo mio.
 
Un giorno viene a trovarmi al lavoro, con il fagottino avvolto in fasce, e mi dice: "Lei è Rosa… ti piace?". Sono emozionata, il mio incontro l'aveva segnata, non lo immaginavo. Non mi sono arresa, mai, come mi ha insegnato lei. Mamma africana e mamma italiana, il dolore non si pesa. Il finale poi anche per me è stato bellissimo, quella però è un'altra storia.
 
di Marika 

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