Dal fallimento della propria start up alla rinascita. Oggi incontreremo Andrea Visconti, giovane papà e imprenditore torinese che ha deciso di raccontare con una fiaba il fallimento della propria start up ai suoi figli.
Tutto è nato tre anni fa, con il fallimento della tua start up...
«Avevo fatto questa start up tre anni fa perché pensavo che la tecnologia avrebbe potuto risolvere un po' tutti i problemi e noi volevamo che le persone potessero avere più tempo per fare ciò che amano. Ad un certo punto, nonostante le cose fossero partite molto bene, con premi e con una serie di investimenti, non ce l'abbiamo fatta e l'azienda è fallita.
Ho sentito poi il bisogno di spiegare ai miei figli che l'azienda era fallita, ma che non era fallito il loro papà e che potevano ancora considerarmi un punto di riferimento per la loro vita. Siccome ogni sera leggiamo loro una fiaba, ho pensato che la fiaba, appunto, potessere essere il modo migliore per spiegare tutto.
Ho quindi prodotto una video-fiaba, anche perché loro sono nativi digitali. L'ho pubblicata poi on line, perché mi faceva piacere anche condividere con le persone che ci avevano seguito fino a quel momento cosa avevamo imparato da quell'esperienza. Questa video-fiaba ha avuto un grandissimo successo: ne hanno parlato radio, giornali, televisioni: ciò mi ha fatto capire che c'è ancora bisogno di raccontare delle storie e che le persone hanno bisogno di ricordarsi quei valori che abbiamo dentro tutti, ma che la quotidianità ci fa dimenticare».
Perché secondo te non è giusto nascondere le cose ai figli?
«Io penso che i figli abbiamo tutti gli strumenti per poter vivere la realtà che viviamo noi, compresi i problemi. Certamente ad ogni fascia d'età bisogna raccontare le cose in modo diverso, in relazione a ciò che i piccoli sono in grado di capire.
Galimberti, ad esempio, dice sempre che ai figli bisogna far vedere il 'cadavere', cioè non bisogna occultare la morte. È inutile nascondere loro le cose della vita, perché altrimenti li si rende impotenti di fronte alla vita stessa. Se tu non hai affrontato gradualmente le sfide che la vita ti ha messo davanti, perché i genitori hanno tentato di proteggerti, prima o poi arrivano i problemi e tu non sei in grado di reggerli.
Mio figlio dice sempre: "Tu sei il mio scudo", io cerco di esserlo per ciò che per lui è troppo grande, ma cerco di non esserlo troppo, perché lui ha bisogno di potersi confrontare con la realtà. Con la mia fiaba ho cercato di fare questo, cioè raccontargli che il fallimento fa parte della vita. Siccome non fallisce mai la persona, ma l'attività messa in piedi, l'idea o ciò che era... da lì si può ripartire tranquillamente, magari sfruttando quell'esperienza negativa per ricostruire una nuova opportunità.
Io non so sinceramente cosa i miei figli abbiano capito di quella fiaba, perché mio figlio più piccolo all'epoca aveva due anni, il più grande tre e mezzo e Diletta non era neanche nata. Sono sicuro però di una cosa: quello che hanno capito è che un papà si è calato nel loro mondo per condividere con loro una cosa che per lui era importante. Sono certo che questa cosa nella vita gli ritornerà utile quando ne avranno bisogno. È qualcosa che si sedimenta e, quando sapranno che sarà arrivato il momento di tirarla fuori, avranno gli strumenti per farlo».
C'è un oggetto del cuore che ti lega particolarmente a questa esperienza?
«La cosa cui sono più legato, insieme ai miei figli, è il giochino della "scatola delle cose belle" e della "scatola delle cose brutte". Usiamo queste scatole per inserire bigliettini con frasi che ci trasmettono emozioni.
Ad esempio, io chiedo ai miei figli: "Cosa vi rende tristi? E cosa felici? Cosa vi fa stare bene?" e loro mi danno alcune risposte. Le più belle le inseriamo all'interno di scatoline più piccole (che finiscono nelle due scatole grandi), in modo da poterle andare a rileggere di tanto in tanto.
Riccardo, mio figlio piccolo, ha sempre bisogno di correre: gli ho chiesto cosa lo fa sentire felice, e lui ha risposto: "Quando corro sono contento". L'altro figlio, Filippo, ha scritto una cosa che mi ha colpito molto: quando gli ho chiesto cosa lo fa sentire triste, mi ha detto: "Sono triste quando non c'è la mamma". Poi gli ho chiesto: "Che colore ha la tristezza?". Lui ha risposto: "La tristezza è trasparente". Io ho detto: "Perché?". Lui: "Perché è il colore delle lacrime".
Credo che dai figli si impari tantissimo, basta veramente solo osservarli, ascoltarli veramente, giocarci, ecc. Loro sono talmente liberi e semplici che sono fantastici! Con i bambini si può fare un piccolo gioco: genitori, provate a pensare a qual è la cosa o esperienza (non persona) cui lui tiene più di tutto e pensate a cosa fareste se vi chiedessi di darmela, e io in cambio ne restituissi una mille volte più grande o mille volte più bella.
Credo che con i figli sia la stessa cosa, cioè un vero e proprio sacrificio, ma nel senso etimologico del termine, dunque "rendere sacro". Non si tratta di togliersi qualcosa, ma di sacrificarla per avere mille volte di più. Basta dedicare poco tempo ai bambini e da loro si può imparare tantissimo».
di Andrea Visconti
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