Sono le 9,30 del 16 giugno 2015. Ci avviciniamo alla Stazione Centrale di Milano. I migranti, soprattutto eritrei, sono fuori dalla stazione. La maggior parte sono giovani, tra i 15 e i 30 anni. Ci sono diverse donne e fortunatamente pochi bambini piccoli. Avviciniamo una mamma, non parla inglese, ha il viso stanco. Il suo bimbo avrà circa 18 mesi, sgambetta sul plaid. Chiediamo se possiamo fare una foto ma scuotono la testa.
Sotto i portici della stazione è stato allestito dal comune di Milano e dalla Croce Rossa un punto di accoglienza. E' l'ora della colazione, tanti ragazzi in fila silenziosi. Ci sono anche tre bambini siriani, due femmine attorno ai 9 e 6 anni e un maschietto che avrà due-tre anni. I genitori sono chiusi in una stanza. Vediamo il papà che si avvicina al bimbo con una siringa. Non sappiamo per quale cura. Dopo poco il piccolo inizia a piangere disperato. Due volontarie accorrono con leccalecca e dolciumi.
Come mai oggi ci sono così poche famiglie? "Ogni giorno le portiamo nei centri di accoglienza, avete trovato questa famiglia siriana perché ieri sera si erano persi," ci spiega un'addetta del comune.
Nel frattempo una ragazza eritrea si avvicina ai volontari. Chiede qualcosa da mangiare per la sua amica incinta. "She's sick," dice. Non si sente tanto bene.
Decidiamo di andare con Balem (a sinistra). Con lei raggiungiamo i compagni di viaggio e l'amica incinta, Hayat (a dx con la maglia azzurra). Hayat mangia e riprende le forze. È incinta di 7 mesi. Ha attraversato il Mediterraneo su un barcone già incinta. Il marito è stato preso dalla polizia in Libia, non ne sa più niente.
Hayat non parla inglese. Comunichiamo con lei attraverso Balem. Entrambe e i compagni di viaggio hanno attorno ai 20 anni. Si vede che sono stanchi ma colpisce anche la loro bellezza e forza. Sono vestiti bene, dicono grazie agli italiani di Roma dove sono stati per diversi giorni.
Hayat dice che è confusa, triste e ha paura per il marito che non sente più da diversi giorni. Vuole raggiungere la Germania come i compagni di viaggio.
In Eritrea non si poteva più restare, raccontano. Siamo giovani, dobbiamo cercare un futuro in Europa. No, non ho problemi di salute. Sto bene, dice Hayat. Il mio problema è che sono sola e non so dove finirò.
Lasciamo la Stazione Centrale con un pensiero: come si fa a sopportare tutto questo con un bambino nel pancione?
Proprio in quel momento un bimbo di circa due anni, eritreo anche lui, ci fa ciao ciao con la manina felice ... lo prendiamo come un segno di buon augurio.