Sono nata 37 anni fa con un’atassia cerebellare: non tutti lo sanno, ma questa patologia grave è dovuta alla mancanza di ossigeno al cervelletto. La maggior parte delle persone affette da questa patologia vengono definite "spastiche". Una persona che ha avuto questo problema è il ministro Antonio Guidi, forse non da tutti conosciuto.
Molti credevano che non sarei mai riuscita a fare le scale, a camminare, insomma ad essere "normale". I miei genitori affrontarono una lunga battaglia contro tutti i medici, perché tutti, ma proprio tutti, mi davano per spacciata ed invece loro, molto giovani ed inesperti, credettero in me, anche quando tutto faceva pensare, che in realtà, potessero aver ragione i medici.
Effettivamente non riuscivo a camminare, non riuscivo a rialzarmi da terra e avevo molta salivazione: ero una "spastica". Ma loro non si arresero mai: mi fecero fare fisioterapie di ogni genere. Mia nonna, mi ricordo, si metteva in vita la "parannanza" come si dice a Roma. Se la metteva al contrario, affinché io potessi con le mani attaccarmi dietro di lei e così facevamo cinque piani salendo e cinque scendendo. Ogni giorno tutti i pomeriggi veniva a casa mia una ragazza portando con sé la pasta fatta in casa, esattamente i cappelletti, tutti attaccati l’uno all’altro ed io dovevo stare lì a staccarli, uno ad uno.
Così, a 16 anni iniziai ad avere la prima comitiva e il primo ragazzo, ma venivo da un passato nel quale chiunque mi allontanava. A volte, da piccola, non ricevevo neanche gli inviti alle feste di compleanno, perché io ero 'diversa'. Tutto questo portò in me tanta insicurezza e nonostante avessi comunque "recuperato", non mi sarei mai aspettata di avere una vita normale, di prendere la patente a 19 anni, di correre per le scale, di vestirmi da sola, di avere tante amiche, di avere delle storie molto importanti con bravissimi ragazzi, insomma, non mi sarei aspettata di vivere, ma non mi sarei mai e proprio mai, assolutamente, aspettata di diventare mamma a 32 anni……….
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Nel gennaio 2014 il mio sogno si avverò. Io volevo una bimba, volevo tanto una femminuccia, fin da piccola la desideravo. Sì, desideravo una bambola, per chiamarla Camilla, come la mia prima bambola, che trovai il giorno della Befana nel 1985 fuori la porta di casa. Nel mese di gennaio 2014 nacque la mia Camilla, "quella vera però". Era davvero una bambolina e lo è ancora, con gli occhi a mandorla ed il nasetto alla francese.
Eh sì, è proprio una bambola, è stata da subito il mio riscatto, il mio orgoglio, fin dal primo giorno c’è stata tanta sintonia. Ricordo che in ospedale, per farla smettere di piangere, bastava che avvicinassi le mie labbra alle sue. Forse è proprio perché non me l’aspettavo, forse perché con lei sono rinata anche io o forse semplicemente perché era giusto e normale che fosse così, mi sono attaccata "morbosamente" a lei, ma nel senso bello della parola.
Volevo occuparmi solo io di lei, ma purtroppo, all’inizio ebbi difficoltà. Era la prima figlia, non era una bambola come sembrava, quindi, naturalmente, subentrarono la mia mamma e il mio compagno ad aiutarmi. Io, però, non so spiegare con esattezza perché, ma avevo paura. Sì, paura di non essere all’altezza di tutto quello che stavo vivendo, era come se in realtà quella non fosse la mia vita. Avevo paura, così tanta paura che, dopo qualche giorno dal parto, iniziai ad avere problemi nel parlare finché non ci riuscii più. Avevo di nuovo tanta salivazione ed ero sempre tanto stanca. Per fortuna era soltanto una reazione nervosa, ma soffrii molto in quel periodo.
Con l’aiuto di mia madre, dopo 3 mesi, riuscii a tornare in salute e a occuparmi a pieno della mia Camilla, riuscivo a fare tutto, ero diventata bravissima e stavo bene, ero felice, la mia bambina cresceva ed io ero sempre più orgogliosa.
Ma mia mamma scoprì di avere un cancro al seno e questa felicità si trasformò in un incubo. Mia mamma per me è un pilastro, lo è sempre stata, come anche mio padre, forse perché mi hanno sempre molto coccolata, sono sempre dipesa da loro e l'idea di perderli mi ha sempre fatto impazzire.
Mia madre iniziò a combattere questa battaglia con le unghie e con i denti, lei voleva vivere per star vicino a me e Camilla, ricordo che faceva i cicli di chemio rossa, "la più pesante". Perdeva i capelli, ma non hai mai smesso di essere presente. La mattina andava in ospedale e appena uscita, stanca e distrutta, veniva a casa da noi, sempre col sorriso e pronta ad aiutarmi. Non ho mai visto mia mamma stare male, forse è stata Camilla la sua forza, perché nel giro di un anno mia madre riprese la sua vita, i capelli ricominciarono a crescere… aveva, ha vinto!!
Intanto Camilla continuava a crescere ed io, sempre orgogliosa e testarda come un mulo, mi misi in testa di volere un secondo bambino. Desideravo un’altra femminuccia per chiamarla Carlotta. Iniziammo con le prove, io ed il mio compagno, ma alla prima "prova", ecco che ero già incinta, così, subito. E chi se lo aspettava. Camilla aveva appena un anno. Appena ritirai le beta, iniziai a sentirmi in colpa verso la mia bambolina, sapevo che quell’amore unico, assoluto, quella sintonia, le nostre notti abbracciate, prima o poi sarebbero finite, perché avremmo avuto il terzo incomodo. Eppure io questa seconda gravidanza l’avevo desiderata tanto... ma non mi aspettavo sarebbe arrivata così presto.
Passarono nove mesi, nei quali comunque feci di tutto, continuai ad occuparmi di mia figlia con tanta attenzione. Non la potevo tenere sulle gambe accoccolata, perché la pancia era troppo grande.
Non volevo rinunciare a qualsiasi altra cosa potessi fare per lei. Ricordo che l’ultima notte che passai a casa prima di andare in ospedale, la trascorsi abbracciata a lei a piangere. Sapevo che quella sarebbe stata l’ultima nostra notte, solo io e lei.
Il giorno seguente, l’otto giugno, la portai a scuola, spiegandole che sarei mancata per qualche giorno. Ma lei era troppo piccola per capire. Io avevo il parto programmato lo stesso giorno, alle 12.30, e così fu. Nacque un maschietto, Giorgio, e vi giuro, mi sarei alzata subito dopo, lasciandolo in ospedale per correre a riprendere Camilla a scuola.
Giorgio non era Camilla, non era la mia priorità, volevo solo star bene per poter uscire, sono passati 4 giorni, 4 giorni senza vederla, senza sentire il suo profumo, sono stati i giorni più tristi, anche se felici, perché avevo paura, paura delle sue reazioni alla vista del fratello, paura di farla sentire trascurata.
Tornati a casa, mollai Giorgio ai miei per correre da lei. Stava dormendo e mio padre mi disse che in quei giorni Camilla aveva sofferto molto, mangiava poco e dormiva meno. Aspettai seduta il suo risveglio e appena la piccola aprì gli occhi, in silenzio mi abbracciò piangendo e io mi sciolsi in un pianto "molto rumoroso". C’era la telecamerina accesa e gli altoparlanti erano in salotto accesi. Ecco, tutta la famiglia in lacrime.
Da quel momento iniziò una vera e propria 'battaglia': io correvo sempre da Camilla e stavo poco con Giorgio, ma comunque cercavo di fare il possibile. Il mio latte lo davo quasi tutto a Camilla e Giorgio invece si doveva accontentare di quello artificiale. Lo so, ero pessima, ma io continuavo a vedere il bambino come un impiccio tra me e lei. Non facevo altro che mollarlo a mia madre, a mio padre, al mio compagno, a chiunque venisse a trovarmi.
Ma questa 'battaglia' durò solo tre giorni, perché il quarto giorno, Giorgio, di soli 6 giorni, passò tutta la notte a dormire, senza mangiare. Io non mi feci molte domande, perché anche Camilla da piccolina durante la notte non mangiava. Ma la mattina mi accorsi che Giorgio scottava molto, aveva la febbre alta…
Ricoverato d’urgenza in ospedale per sospetta meningite, il bambino doveva stare isolato e quindi raggiungemmo il reparto usando i corridoi sotterranei. Io lo tenevo in braccio, stretto stretto. Ricordo la sensazione, la mia testa non era più lì con me, non ci stavo capendo più niente, quei corridoi erano freschi e non finivano mai… Me lo fecero adagiare su un letto più grande di lui, vennero una decina di medici e ci fecero uscire, chiudendo le porte della stanza. Io chiesi di poter restare con lui ma non fu possibile, dovevano fargli la puntura lombare per capire cosa realmente fosse. La prima non riuscì perché il corpicino era troppo delicato, piccino, quindi ne fecero una seconda e poi una terza…
Giorgio era lì, solo, nudo, senza di me e piangeva come un cagnolino torturato. Ancora ce l’ho nelle orecchie: il suo non era un pianto, era un qualcosa di indescrivibile, un lamento costante, una voce forte. Era come se non fosse lui. Io stavo attaccata dietro alla porta e battevo i pugni gridando "Basta, basta, basta!". Era troppo, non ce la facevo più, fermai la prima infermiera e piangendo le chiesi se un bambino così piccolo potesse resistere a tutto quel dolore…
Finalmente la porta si aprì ed io neanche chiesi come stesse, corsi subito da lui. Sentii che i medici non erano riusciti a fare nulla. Lui era lì, con tutti i tubicini attaccati e nessuno sapeva cosa avesse, ma già gli avevano dato un forte antibiotico.
Con il passare dei giorni, analisi dopo analisi, capirono cosa era: un enterovirus, un virus intestinale per capirci, ma su un bimbo di appena 6 giorni, poteva avere gravi conseguenze.
Infatti Giorgio non si riprendeva, la febbre non scendeva, finché dopo 10 giorni di antibiotico, i dottori decisero di smettere la cura, poiché il piccolo era troppo debole e l’antibiotico era stato somministrato già più del tempo dovuto. Così ci dissero che da quel momento in poi, il bambino avrebbe dovuto reagire da solo, che avremmo dovuto soltanto aspettare e sperare. Mio padre, sempre lì con me, chiamava piangendo mia madre che era a casa con Camilla. Io non ricordo mai di aver visto mio padre piangere. I miei, come tutti, si aspettavano il peggio.
Ma io non sapevo di avere messo al mondo un guerriero: due giorni dopo, la febbre scomparve. Giorgio tornò a casa. In quei 10 giorni di ospedale, non ce ne fu uno in cui non mi sentii in colpa, in colpa per non averlo accettato da subito. Pensai che potesse essere stata una punizione divina, le pensai tutte. Nonostante ciò, nella mia testa c’era sempre Camilla: infatti la notte andavo a casa da lei e durante il giorno mio padre mi riportava in ospedale. Durante la notte restava mio marito con Giorgio. Ammetto che non mi rendevo conto della gravità della situazione, non pensavo al fatto che se fossi andata via, magari il giorno dopo, non lo avrei trovato più. Probabilmente rifiutavo completamente questa idea.
Io so solo che guardandolo adesso, mi rendo conto di quante cavolate ho fatto. Se avessi avuto la calma e la lucidità necessarie, mi sarei resa conto che avrei potuto prendermi cura di entrambi nella stessa maniera, come fanno le mamme gatte. E' la natura e non c’è cosa più bella.
Mia figlia, così piccola, mi diede una grande lezione di vita. Appena il fratello tornò a casa, lo abbracciò e disse: "Mamma, sono contenta che sia tornato Gioggio, ora siamo quattro".
Sto crescendo con loro ed ogni volta che li guardo mentre sono abbracciati, capisco quanto debba essere riconoscente alla vita e a tutte le persone che hanno sempre creduto in me.
di Flavia
(storia arrivata sulla pagina Facebook)
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