Il secondo giorno la febbre è scesa a 38
freddo polare
Torno a casa trafelata. Devo fare le scale col piccolo in braccio, che si rifiuta perentoriamente di camminare accusando un improvviso ritorno dei sintomi acuti, e le cinque borse di spesa fatta alla cieca. Apro la porta di casa, dopo un’affannosa ricerca delle chiavi che sono al solito posto nella borsa, ma che io non trovo più a causa della stanchezza e del panico, scarico la spesa sul tavolo e medito di portare il bimbo e me stessa a fare un riposino. Ma lui non vuole: adesso che i sintomi acuti sono, come per magia, scomparsi, vuole giocare. Sono stanca ma lo accontento, ci sediamo sul tappeto e tiriamo fuori tutti i robot, i dinosauri e i mostri che possediamo per inscenare una battaglia epocale.
Alle sei di mattina è già in piedi e pretende la sua colazione. Poverino, deve rimettersi.
E si rimette ben bene nei suoi giorni di convalescenza. Sono giorni terribili: lui è vivace e giocherellone, ma si stanca presto e s’innervosisce per ogni cosa: la maglietta di lana che pizzica, la carne che è dura, il cartone animato che è finito. Io gli sto dietro mentre, nel mio animo, la tenerezza infinita dei primi giorni cede il passo a un malcelato senso di fastidio.
Arriva il giorno felice del suo ritorno all’asilo: lui ha le guance rosee, uno sguardo brillante, sembra perfino più alto e robusto. Esce di casa col padre trillando come un campanellino. Io rimango sola e mi guardo allo specchio: occhi spenti, capelli non lavati, incarnato grigiastro – penso con angoscia “Dov’è finita la mia bellezza e la mia vitalità? Che ne sarà di me?”.
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