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Mamma Simona e il trasferimento a Venezia

di mammenellarete - 28.08.2009 - Scrivici

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Sofia aveva otto mesi quando decidemmo di trasferirci in un’altra città. Vivevamo a Milano, io e il mio compagno, ma senza troppa convinzione. “E’ una città impersonale e grigia” tuonava lui al ritorno dal lavoro “non è adatta per crescere dei bambini”. Cercavamo una città ideale: che avesse il verde, il mare, bella gente e niente traffico. Impossibile? Guarda caso, Enrico era veneziano d’origine, così la scelta cadde sulla città che mi aveva fatto rischiare la depressione post partum per via della guida abortita.

Partimmo una mattina di aprile, con la macchina stracarica di valigie ed effetti personali di vario genere e i miei genitori che ci salutavano con l’aria di chi pensa: “questi sono due pazzi; sarà il caso di lasciargli crescere una bambina?”.

 

Pazzi lo eravamo davvero, visto che il mio compagno aveva lasciato un lavoro danaroso per trasferirsi nella città della sua infanzia. Ma appena vedemmo il mare, i vaporetti e le antiche calli che si aprivano su deliziosi campielli con la vera da pozzo, in un aprile di scenografica solarità, ci sentimmo così felici e storditi di bellezza da temere di essere prede della sindrome di Stendhal.

 

Andammo a vivere in un monolocale con soppalco, Enrico trovò lavoro a Mestre e io cominciai a pensare che, se volevamo vivere decentemente nella Serenissima, era il caso che mi dessi un po’ da fare. Il primo problema da affrontare era a chi affidare la piccola mentre io cercavo lavoro in una città in cui non conoscevamo nessuno, se non qualche anziano parente e due o tre compagni di scuola di Enrico.

 

Venezia era una città povera di asili nido, ma i suoi abitanti erano pieni di risorse.

 

In poco tempo, d’accordo con alcune mamme del circondario che avevano esigenze simili alle mie, organizzammo un “nido in famiglia”.

 

Le nostre bambine erano al sicuro in casa, per mezza giornata, con una brava educatrice che non si faceva nemmeno strapagare, e noi mamme potevamo dedicarci alla vita fuori dalle quattro mura domestiche (che nel mio caso erano proprio quattro, non una di più).

 

Cominciai a insegnare l’italiano ai tanti stranieri che popolavano la città.

 

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dolce mammina

 

scrittrice

 

severa educatrice

 

Non andò proprio come mi aspettavo, ma i problemi più gravi li ebbi con la preside del liceo, non con gli studenti che finirono col volermi bene (o forse mi compativano soltanto).

Come docente di lettere antiche mi giudicavo preparata, ma come madre un po’ meno. Fu così che cominciai ad assentarmi di tanto in tanto, preoccupata dai frequenti raffreddori della piccola Sofia che risentiva dell’umido clima lagunare.

 

La preside mi chiamò a colloquio: “Cara signora, lei è una brava insegnante - non dico - ma queste sue assenze cominciano a preoccupare me e i genitori degli studenti. Sa, c’è il rischio di rimanere indietro coi programmi.” “Lo so, preside, ma ho una bambina di 14 mesi che si ammala spesso e non ho i miei genitori, qui a Venezia… devo fare tutto da sola”.

 

La distinta signora che mi stava di fronte s’inalberò in maniera improvvisa e preoccupante: “Se lei crede d’intenerirmi con questa storia si sbaglia di grosso, cara la mia professoressa. Sbandierarmi i problemi che ha con sua figlia non è professionale. Io ne ho cresciute due senza l’aiuto di nessuno e senza mai mancare al mio dovere. Se le sue assenze continueranno, mi vedrò costretta a farle un richiamo ufficiale”.

 

Inghiottii il rospo, pensando a come dovevano essere cresciute bene, le sue due figlie, con una madre-gestapo. D’altronde, la nazi aveva ragione: non potevo in alcun modo permettere alla vita personale d’influenzare così pesantemente quella professionale. Fu così che mi ritornò la voglia impellente di rimettermi a scrivere, sperando in un lavoro che mi lasciasse più libertà. Terminata la mia supplenza al Marco Polo, diventai giornalista free lance per il Gazzettino di Venezia. Situazione a dir poco esaltante. Andare in giro col fotografo per tutta la città, seguire eventi, situazioni, personaggi e poi tuffarmi a scrivere, scrivere, scrivere…

 

E Sofia?

 

Il nido in famiglia non bastava più, così presi una tata, una vitale signora colombiana di mezza età, Blanca. Mi sembrava che Sofia e Blanca filassero d’amore e d’accordo, e in effetti era così.

 

Intanto io facevo la cavalla imbizzarita in giro per la città. Poi mi chiudevo ore nello studio - nel frattempo avevamo preso in affitto una casa più grande - a buttare giù i pezzi. Nessuna supertata mi aveva avvisato che se hai una figlia piccola non puoi fare la giornalista di cronaca. Me ne accorsi rientrando a casa un pomeriggio, stanca morta e accaldata: ringraziai Blanca e feci per mandarla a casa, quando Sofia ebbe la prima crisi isterica della sua vita. Urlando e singhiozzando mi fece capire che non voleva restare sola, senza Blanca. “C’è la mamma adesso con te”. “Mamma no, mamma sempre via, io voi Banca”.

 

Il mio fragile cuore di neo madre si spezzò in quel preciso istante. Piansi tutta la notte, ma il mattino dopo avevo deciso: “basta con la cronaca, lascerò il giornale”.

 

Simona Castiglione

 

Storie senza Fine

 

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