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La forza di essere madre

di mammenellarete - 20.06.2014 - Scrivici

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Mi ricordo d'aver sorriso per quella brezza marina che nell'afa di Luglio mi sfiorava il viso, quando credevo ancora nelle favole. Alle favole, in realtà, non ho smesso di credere, con la differenza che ora la protagonista principale non sono più solo io. A quei tempi il riflesso che io cercavo davanti ad uno specchio era indistintamente il mio e nessun altro mi avrebbe soddisfatto tanto quanto ciò che riguardava me stessa. Capita, quando si è donne. Capita ancor più quando si è ragazze. La vanità contraddistingue il sesso femminile, è una compagna indiscussa (o troppo discussa) del nostro affascinante genere. Con la vanità si fa a botte sia che ci si piaccia tanto, sia che non ci si piaccia per niente. Io ho passato entrambe le fasi, ma a quei tempi ero nel momento in cui la vanità era mia compagna fedele e rassicurante. Conviene piacersi davvero, per nascondere le insicurezze che bollono in pentola, illudendosi che prima o poi non esploderanno.

A quei tempi, dicevo, ballavo da sola. Era Agosto, non più luglio, caldo insistente, il seno che faceva troppo male. Non ancora laureata, non ancora ufficialmente fidanzata, tanti ancora colmavano la mia vita. Era solo Agosto, tanto caldo, quel male al seno e infiniti pensieri che frullavano nella testa. Ma nessun momento è mai quello giusto per le grandi cose, anzi spesso è proprio il momento più sbagliato a nascondere gli eventi che davvero ci cambieranno la vita.

 

Il test di gravidanza risultò positivo.

 

Si, già da giorni me lo sentivo. Incerto panico in me, certo panico nello sguardo della mia amica di fronte. “E ora che fai?” mi chiese. Mai tanto domanda mi sembrò così stupida e inutile. La guardai, per risponderle. In realtà la domanda era ovvia, ma io non me l'ero chiesto perché la risposta la sapevo già. L'incerto panico creò in me un subbuglio di emozioni troppo violente per un animo ancora tanto instabile e inquieto. La mia vanità cadde di colpo. Io non ero nessuno, io non ero nessuno in confronto a quell'essere che avevo dentro e che aveva bisogno di me. Lui (ero sicura fosse un lui) aveva bisogno di me... in realtà io non avevo la forza per dargli sostegno. La paura fu tantissima.

 

In tante irrequietezze non vedevo i preparativi per il mio matrimonio, non vedevo le amiche che mi sorridevano eccitate, non vedevo il mio ragazzo, non vedevo più me riflessa allo specchio. Sarei dovuta essere felice forse, ma non lo ero. Provavo una carica di responsabilità grandissima e non mi sentivo all'altezza. Ma nonostante tutto ciò la mia creatura cresceva e tutto ciò che facevo ogni giorno, meccanicamente, era solo per lui. Lui... chi? Non avevo avuto dubbi nel tenerlo. Lui era mio, era parte di me. Io non sapevo perché.

 

Avrei potuto abortire, avrei dovuto abortire, mi dicevano in tanti.

Le circostanze non erano favorevoli. Ma lui era naturale, naturale come l'inverno che presto venne rapido, naturale come la primavera che lentamente si affacciò silenziosa nel mese di Marzo.

 

Quel mese compii 23 anni. Ormai sapevo che il Lui in realtà era una tenera Lei. Ero al settimo mese di gravidanza, una bella pancia mi si affacciava davanti, ogni sera ci spalmavo la crema antismagliature. Ricordo ancora quell'odore, aspro, misto di paura e apprensione. Non sapevo ancora quanto dentro a quei profumi dolciastri ci fosse amore. Forse non avevo mai così amato.

 

Care donne, non lo si capisce mai bene fin quando non si diventa mamme.

 

Mentre mi carezzavo la pancia la sentivo in tutta la sua forza, si girava e rigirava, lei era tanto bella e forte. Non l'avevo ancora vista, ma la sentivo che era così. Lei era tanto bella e forte, io così sola e fragile. Che mamma sarei stata? Come avrei fatto?

 

Incredula sentivo questa creatura crescere in me, formarsi, prepararsi alla vita. La sua vita dipendeva da me, me che non ero nessuno, anzi, mi sentivo la persona meno adatta. Mi vien da sorridere, ma la mia piccolina se ne fregava di tutta la mia agitazione, lei andava avanti, cresceva sempre di più. Mai una contrazione, mai un dolore. Eppure non furono mesi facili. Ma lei, già da allora, andava dritta per la sua strada, e faceva bene.

 

20 Maggio 2007. Dopo una festa di compleanno, tornai a casa e andai a dormire. Quel giorno avevo finito i nove mesi, ormai mancava solo la settimana ostetrica.

 

Tutto d'un tratto sentii liquido tra le gambe. Muovendomi, uscì altro liquido. Mi alzai e bagnai tutto per terra. Dissi: “Si son rotte le acque”. Mio marito mi guardò ed io, dopo nove mesi che non lo vedevo, riconobbi di nuovo il suo sguardo: lui c'era sempre stato ed era pronto, anche lui più pronto di me.

 

In ospedale tremavo come una foglia. Non avvertivo malessere, mi si erano solo rotte le acque. Dopo un po' i primi piccoli dolori. Poi fu un crescendo. L'ostetrica mi fece stendere, fece andare a casa i miei familiari, tanto c'era tanto da aspettare, disse.

 

Rimasta in camera, guardai alla mia destra e vidi una donna che aveva partorito la sua quinta figlia, ma ormai non la vedevo più, dolori assurdi mi spingevano ad urlare, urlare! Si affacciò scocciata l'infermiera. La solita smorfiosa, pensava. Mi controllò tanto per tenermi contenta.

 

Allarme, la bambina stava nascendo. Mi spostarono in un'altra stanza. Da quel momento in poi ciò che ricordo è un dolore insopportabile, una forza incredibile dentro me che premeva violenta per uscire. L'ostetrica che mi assisteva si chiamava come me, Lucia, e mi guardava sorridendo. Aveva una faccia da luna piena e diceva: “Dai che ce la fai”. Ed io: “Nooo, nooo, tagliatemi, non ce la faccioo”. E invece ce la feci. In quel caso è la natura che agisce per noi.

 

Era la fine. Spinsi, spinsi forte... “Si vede la testa”, dicevano.

 

Si la mia piccola era lì, dovevo spingere… e spinsi, spinsi e gridai, non so quanto gridai, ma ecco, come un pesciolino la sentii venir fuori. Qualche secondo di silenzio e... un bellissimo pianto.

 

Sentii dire: "ore 5,40".

 

Sì, la mia piccola è nata il 21 Maggio 2007 alle 05,40. Me la misero tra le braccia e io per la prima volta la guardai, io quasi in soggezione davanti a lei, una bambolina di kg 3,570, gli occhi semiaperti che mi guardavano, una boccuccia deliziosa, pochi peletti in testa, io e lei, soltanto.

 

Quei secondi furono pochi, perchè poi la presero per lavarla, ma la percezione che io ho è molto dilatata, sospesa nel tempo.

 

Ho guardato mia figlia per la prima volta, per la prima volta io ho visto me stessa nei suoi occhietti, altro che riflesso sullo specchio! Altro che vanità! Altro che io unica protagonista della favola! Ora c'era anche Lei, Anna.

 

Le diedi questo piccolo e tenero nome prima di tutto perchè era lo stesso di mia madre e questo legame col mio passato mi trasmetteva una certa sicurezza; sapevo già che la sua nascita e la sua vita non avrebbe simboleggiato per me qualcosa a prescindere dal mio trascorso. Si diventa madri, ma purtroppo (o per fortuna) non si finisce di essere figlie. Anna mia madre, Anna mia figlia, ed io in mezzo.

 

In quei secondi dilatati io compresi che avrei preso dalla mia creatura ciò che a me da piccola era stato tolto. Già, anche se lei aveva bisogno di me, in realtà ero soprattutto io ad aver bisogno di lei.

 

Come se la sarà cavata poi questa fragile mamma? Vi chiederete. Ho imparato una cosa: noi donne nella nostra fragilità possiamo trovare la nostra forza. Non c'è la luce senza il buio e i più bei colori sono quelli dipinti sul nero. L'amore verso un figlio supera tutto. Le notti insonni, la stanchezza, i tanti sogni, la sfinitezza verranno superati, perchè la dedizione di una mamma fa affrontare ogni cosa.

 

Potei allattarla, e nutrirla del mio latte nutriva il mio spirito. Ad ogni contatto si consolidava il nostro amore. Mi ricordo d'aver sorriso per quella brezza marina che nell'afa di Luglio mi sfiorava il viso. Sì, mi ricordo d'aver sorriso, quando ancora non conoscevo il paradiso.

 

di mamma Lucia

 

(storia arrivata all'email redazione@nostrofiglio.it)

 

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