Sono nata e cresciuta in un paesino di provincia. Ho avuto genitori iper protettivi e molto attenti ai giudizi della gente. Mi dicevano: "Non puoi partire all'estero, sei troppo piccola. Non puoi andare a convivere, perché il paese mormora".
Così stupidamente mi sposai a 22 anni con il mio fidanzato. Anche se tutto mi stava molto stretto, dovetti accettare il "modo di fare" del mio paese. Passarono due anni, quando iniziai a desiderare una bambina. Volevo una femmina.
La desideravo così tanto che il fato mi accontentò. Tredici anni fa (il 1° ottobre) la diedi alla luce. E io sprofondai nel buio. Non c'era nessuno con me. Partorii da sola in una stanza della quale non vedevo i contorni perché mi avevano tolto gli occhiali e continuavano a ripetermi che non ero l'unica donna a mettere al mondo un figlio.
Ebbi l'intimità con la mia cucciola solo dopo quattro giorni a casa. Mio marito era molto felice di portare in ospedale parenti e amici. Io invece volevo solo tranquillità. Dopo una settimana dovetti passare al latte artificiale, perché non avevo latte.
Di quel periodo ricordo la solitudine, il cielo scuro e il senso di inadeguatezza che accompagna forse ogni neo mamma.
A cinque mesi mia figlia venne ricoverata per una bronchiolite. Di quel periodo ricordo i bambini con malattie molto più gravi, l'impossibilità di aiutare la mia piccola creatura con i tubicini nel naso e le mascherine che dovevamo usare per proteggerla. Quello è stata la vera goccia che ha colmato il mio "personale vaso".
"SEI TROPPO ANSIOSA. CHE PROBLEMA C'È SE MIA SORELLA NON USA LA MASCHERINA?".
Questa frase fu detta da mio marito quando allontanai mia cognata dalla stanza dell'ospedale, perché voleva entrare senza protezioni.
Ma il paese mormorava... Io resistetti altri cinque anni. Dopo le dimissioni di mia figlia, comprai una Panda scassatissima e superai la mia paura di guidare.
Mettevo la bimba dietro nel seggiolino e affrontavo le mie paure con lei accanto. Trovai lavoro e riuscii a giostrarmi tra asilo, miei genitori e lui.
Smisi di piangermi addosso e cominciai ad uscire, a prepararmi al passo successivo. La mia libertà. Non fu semplice né senza strascichi. Lui non accettò la cosa e mi minacciava. Iniziai a uscire e a entrare dalla questura.
Cambiai avvocati. Nel frattempo la gente parlava. Ma mia figlia era serena. Andai per due anni dallo psicologo, presi delle medicine. Ma ho sempre avuto il sorriso sulle labbra quando ero con lei e non ho mai impedito al padre di vederla.
Anzi, quando per farmi dispetto lui non la voleva tenere, io lo obbligavo. "Ripensaci", gli dicevo. "Per la bambina". Mi trasferii con lei un anno dopo. Dopo più o meno otto udienze. Dopo aver smesso con l'ansiolitico, mi sentivo sempre più forte e dura.
Risparmiavo tantissimo e non facevo altro che cercare lavori e impegnarmi per sopperire alle mancanze di lui. Molte chiacchiere e poca sostanza. Anche dopo il divorzio.
Avevo chiuso gli occhi e le orecchie per poter avere finalmente quel pezzo di carta. Lui mi diceva una marea di balle come: "Sono disoccupato".
Ancora oggi, dopo quasi 10 anni di distanza, molte cose non sono come dovrebbero essere con il mio ex. Evito di rovinarmi il fegato e vado avanti. Mia figlia ora è una ragazza splendida, matura per la sua età e molto ironica. Ha preso molto da me.
Ho un altro figlio e un compagno, insieme siamo una bella famiglia. Il parto del mio secondo bimbo è stato lunghissimo e bellissimo, pieno di intimità e di amore. Da parte di tutti, compreso lo staff dell'ospedale. Da un divorzio non si esce mai velocemente e indenni. Specialmente se ci sono figli.
Ma dopo si può essere ancora felici.
di Emanuela
(storia arrivata come messaggio privato sulla pagina Facebook editata dalla redazione)
Io italiana, lui marocchino, l'amore non conosce differenze della pelle
Il nostro piccolo grande Amore
Avrei dovuto abortire, ma ho seguito il mio cuore
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Aggiornato il 25.09.2018