Mi chiamo Andrea, ho 26 anni e vi scrivo dalla Sardegna. Dopo sette anni di fidanzamento e due anni e mezzo di tentativi, lacrime e stress, finalmente riuscii a rimanere incinta.
Feci il test di gravidanza l'8 dicembre e il miracolo avvenne. Aspettavo la mia bambina!
Dopo un mese esatto decisi di fare la prima visita e mi recai da una ginecologa di Sassari che mi fece vedere la piccola. Il mio compagno ed io felicissimi tornammo a casa, dove i familiari ci fecero notare che la dottoressa non ci aveva fatto sentire il battito. Lì per lì non ci sembrava una dimenticanza, la bimba si muoveva.
Mese dopo mese le cose andavano benissimo, tri-test nella norma, ma la cucciola non voleva rivelare il suo sesso. Fino alla ecografia morfologica, durante la quale ebbe inizio il mio incubo. Mi sdraiai sul lettino e guardai la piccola nell'ecografo. Le misure erano nella norma, il liquido amniotico idem.
Ad un certo punto vidi cambiare il viso dell'ecografista. Iniziai a preoccuparmi. Lui chiamò la dottoressa che mi seguiva, poi un altro ginecologo. Poi il primario. Il mio compagno ed io iniziammo a stringerci la mano forte e a guardarci con ansia e paura.
Ci circondarono e ci dissero che la piccola aveva un blocco atrioventricolare con versamento. I suoi battiti, invece di essere alti come nella norma, erano circa 60 al minuto. Ci dissero che molto probabilmente la bimba non sarebbe mai nata. Una bimba...
La notizia di una femminuccia mi riempì di gioia, ma nel parcheggio dell'ospedale scoppiai in lacrime. Mi ricoverarono il giorno stesso, la mia ginecologa mi consolò dicendo che ero giovane e potevo avere un altro figlio. Iniziarono a farmi esami.
Malattie infettive zero, medicinali che potevano aver causato il danno idem, fino a quando non controllarono i miei anticorpi.
Mi dissero: "Signora lei ha una malattia autoimmune, forse un lupus che dorme dentro di lei, ma che ha aggredito il cuore del feto. Mi tennero in ospedale per tre giorni, durante i quali non potevo fare nemmeno il tracciato. I miei battiti camuffavano quelli della bimba, troppo bassi per essere percepiti dal macchinario.
Piansi notte e giorno pregando che la mia gravidanza arrivasse a termine. Feci un'ecografia fetale e la mia speranza si aprì come un cielo stellato. Il cardiologo mi tranquillizzò e mi disse che il versamento non c'era, il blocco atrioventricolare 2 a 1 purtroppo era lì, ma che la bambina non aveva sofferenza fetale e stava crescendo bene. L'unica cosa che dovevo fare era trasferirmi un mese prima del parto a Genova.
La piccola molto probabilmente necessitava di un pacemaker. Mi diedero uno sciroppo broncodilatatore e del cortisone. Il primo per aumentarmi i battiti in modo di alzare quelli della bambina, il secondo (ormai inutile) per far abbassare gli anticorpi. Ogni settimana mi recavo da quel sant'uomo del cardiologo che controllava la crescita della bimba. Fino alla 30esima settimana, durante la quale partimmo per l'ospedale pediatrico Gaslini di Genova.
Venti giorni in un appartamento vicino all'ospedale, in cui aspettai con ansia il cesareo programmato per il 7 agosto. La mattina alle ore 9.10 nacque la mia piccola guerriera, bella come il sole. La vidi per un secondo. L'équipe di cardiologi pronti ad intervenire la portarono al dipartimento cardiovascolare, nel quale rimase un paio di settimane.
Io il giorno dopo convinsi un'infermiera a procurarmi una sedia a rotelle per poter visitare la bimba e per poterla stringere a me. Il mio compagno ed io percorremmo i sotterranei del Gaslini per arrivare da lei. La vedemmo. Era una gattina con sensori ovunque, un sondino all'ombelico, dal quale le somministravano due terapie.
La prima era il bronco-dilatatore, la seconda caffeina, con lo scopo di aumentare i battiti. Per il momento niente pacemaker.
Eravamo speranzosi. I suoi battiti erano sempre sui 60-70 al minuto. Mi misero con lei dopo sette giorni. Un altra settimana di monitoraggio e ci dimisero temporaneamente. Aspettammo sempre nell'appartamento di Genova in attesa di un "holter" che doveva essere messo per 48 ore, esattamente il primo di settembre.
Il mio compagno partì per la Sardegna per lavoro proprio in quella data. Io rimasi con mia madre e mia suocera, la paura era tanta. Ventiquattro anni erano pochi per affrontare tutto da sola. Fino al 3 settembre, giorno in cui mi chiamarono e mi dissero che Lara doveva ricoverarsi subito. Doveva mettere il pacemaker di urgenza. Durante la notte il suo suo cuore aveva 40 battiti al minuto.
Mi crollò il mondo addosso. Mi feci forza e arrivò la mattina dell'intervento. Lara piangeva disperata per la fame: doveva restare a digiuno dalle 5 del mattino fino alle 14 del pomeriggio, momento in cui mi dissero di portare la bimba nella sala operatoria.
Con le lacrime agli occhi baciai Lara che gridava e la lasciai in braccio all'infermiera che mi rassicurò, dicendomi che sarebbe andato tutto bene. Furono le due ore più lunghe della mia vita. Consolata da mamma e suocera, in stretto contatto telefonico con il babbo della mia piccola, camminavo avanti e indietro dal piano della sala operatoria alla sala di attesa per i familiari.
Ad un certo punto citofonò il cardiologo che aveva eseguito l'operazione, dicendomi di uscire fuori dalla sala operatoria per un colloquio con lui. Ogni gradino era un pensiero a lei. Pensai alla mia piccola di un mese appena, pensai all'anestesia. Al suo sterno reciso, a una taschina sottocutanea sul pancino con il suo salva-vita impiantato.
La vidi uscire addormentata dall'anestesia. Era pallida e fredda con il ciuccio più grande di lei in bocca. Mi dissero: "Signora è andato tutto bene. Ora la mettiamo in terapia intensiva (stesso reparto dove aveva passato i suoi primi giorni) e le facciamo una piccola trasfusione per aiutarla a riprendersi e una settimana di ricovero".
Io rimasi sempre con lei. La vedevo riprendersi velocemente. Un piccolo miracolo. Ci dimisero e per altri 10 giorni restammo nella casa di Genova. Il mio compagno mi mancava tantissimo. Gli mandavo foto e video per non fargli perdere nulla. Fino alla visita di controllo.
La bimba avrebbe dovuto togliere i punti e avremmo saputo finalmente se il babbo poteva venirci a prendere per ritornare dopo due mesi in terra sarda. Fu una mattinata lunghissima, facemmo una visita dopo l'altra. Fino alle 15, orario in cui il cardiologo le tolse i punti e mi comunicò che potevo avvisare il padre per tornare a casa. Non ci credevo più.
Ora Lara ha due anni. Siamo sempre seguiti dal cardiologo di Sassari che ormai è una sorta di padrino per Lara e ogni sei mesi siamo in trasferta al Gaslini. La bimba cresce bene, ha due buchetti al cuore che se non si chiuderanno spontaneamente dovranno essere chiusi verso i 5 anni. E' molto tranquilla ed è una gran ballerina. Potrà fare una vita normale. Logicamente dovrà subire altre operazioni per cambiare i cavetti del pacemaker e la batteria.
Ma siamo fiduciosi perché per noi è già un miracolo vederla sorridere e crescere. Ho saputo poi che il suo problema poteva essere evitato con una semplice analisi preventiva del sangue durante la quale vengono controllati gli anticorpi della madre, se si ha o meno una malattia autoimmune.
Sono tante le persone che ce l'hanno e non lo sanno. Se avessi assunto cortisone dalle prime settimane forse Lara non avrebbe avuto questo percorso in salita, non avrebbe conosciuto ospedali e bisturi.
Non avrebbe mai giocato a "tirare la monetina" della vita. Ho saputo solo dopo che la sua percentuale di nascita era del 50% .
Vorrei che ci fosse più prevenzione e che tutti i ginecologi controllassero le pazienti da cima a fondo. Io sono stata fortunata nella sfortuna. Lara è qui con me. Ma quanti bimbi non ci sono più? Quante mamme hanno traumi per aver perso i propri figli per una malattia autoimmune mai diagnosticata?
Ora vorrei tanto avere un altro bambino ma vivo nel terrore che la storia possa ripetersi. Spero di trovate un ginecologo e un reumatologo in gamba, che possano aiutarmi ad affrontare il nuovo percorso con le cure e le visite necessarie affinché tutto vada bene.
di Andrea
(storia arrivata sulla nostra pagina Facebook)
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