Quando io e mio marito decidemmo di dare un fratellino al nostro Riccardo, che ormai aveva quasi quattro anni, pensai che, essendo il secondo figlio, sarebbe stato tutto facile e veloce. Ma non immaginavo quello che poi mi è accaduto.
Rimasi incinta il 20 aprile. Per il compleanno di mio marito, il 7 maggio, avevo organizzato una festa. Ma l'11 maggio il mio ginecologo mi chiamò dicendomi di avere i risultati del Pap test e di aver riscontrato un infezione piuttosto importante.
Quando gli dissi di essere incinta si fece serio e silenzioso e mi disse di andare subito da lui. Il giorno dopo mi disse che era rischioso portare avanti la gravidanza, ma che con pazienza e con un trattamento che mi avrebbe fatto lui avrei avuto buone possibilità di stare bene.
Mi disse di fare un'ecografia e da quel momento iniziò il mio vero calvario. Mi dissero che non c'era battito e non c'era la camera gestazionale. Ricordo le testuali parole: "Non c'è gravidanza o meglio non c'è più". Mi diedero delle pillole, dicendomi che se dopo una settimana non sarebbe arrivato il ciclo mestruale, avrei dovuto prendere le pillole.
Il dottore concluse dicendomi: "Tra 2 mesi ci riprovi". Ero in lacrime e disperata, non riuscivo a stare in piedi. Lasciai lo studio e chiamai mio marito, che mi raggiunse subito e una volta capita la situazione, cercò di tranquillizzarmi.
Trascorsero i giornI e io ero sempre più in ansia. Andavo in bagno di continuo per vedere se quella creatura che volevo con tutto il cuore "se ne stava andando". Ma nulla, io stavo benissimo, non avevo niente che preannunciasse un aborto.
"Ma se non c'è, non c'è", mi ripetevo. Una mia amica, nonché ostetrica, che quattro anni prima mi aveva aiutato a dar alla luce il nostro primo figlio, mi disse: "Rifai gli esami del sangue e vedi se le beta sono diminuite, prendi le pillole se sono aumentate.
Vieni in reparto e vediamo".
Passarono due settimane. Avevamo detto a pochissime persone che avevo "perso" il bambino. Inaspettatamente arrivò l'esito e le beta erano arrivati a quasi 3000. Ero stra-incinta. La mia amica mi disse che probabilmente l'ovulo era diventato embrione, impiantato in ritardo.
E il ginecologo questo doveva saperlo. Se lo avessi ascoltato e preso le pillole, avrei ucciso il mio bimbo che ora ha due anni e mezzo. La nuova ginecologa curò l'infezione con una semplicissima pomata da mettere di notte.
Ma l'incubo non era finito: sempre durante la gravidanza, quando feci l'ultrascreen, mi dissero che dovevo fare subito la villocentesi. Dopo un mese di tremenda attesa ebbi l'esito: feto sano e maschio.
Da quel momento in poi tutto andò abbastanza bene, fino all'hospital day. Il parto fu difficilissimo: il bimbo era troppo grande. Doveva nascere il 31 dicembre, ma mi fecero tornare il 2 gennaio.
Arrivai in ospedale con l'influenza intestinale, che mi provocò una dilatazione di due centimetri. Questo fece pensare ai medici che in poco tempo sarebbe nato. E invece mi sottoposi a lunghi giorni di ricovero a causa dello scollamento delle membrane. Mi diedero anche l'olio di ricino.
Finché, dopo 14 giorni, mi fecero l'induzione e, dopo una giornata, le contrazioni arrivarono. Alle 3 del mattino del 15 gennaio entrai in sala parto, ma dopo 16 ore di travaglio i dottori decisero di far nascere Pietro con un cesareo di urgenza.
Per fortuna è nato in piena salute, con i suoi 4,276 grammi di amore. Alla fine però io ho sempre sentito nel mio cuore che tutto sarebbe andato bene. Fidatevi sempre del vostro istinto e, se non per problemi gravi e rischio per voi stesse e il bimbo, non forzate mai il parto.
La mia gravidanza è iniziata con una settimana di ritardo e di conseguenza il mio bimbo sarebbe dovuto nascere naturalmente una settimana dopo.
O magari no! Ma sicuramente avrei evitato 16 ore di travaglio intenso stremante!
di Sabina
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Aggiornato il 28.11.2017