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Che cosa significa per me vivere all'estero

di Valeria Camia - 20.06.2017 - Scrivici

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Fonte: Pixabay
Ho letto la storia di quella mamma che soffre di depressione stando all'estero. Mi era sfuggita.... Ecco quello che mi sento di dire al riguardo.

Vivere all’estero non è facile. Perché ci si trova a dover imparare, capire, apprezzare (a volte far finta di apprezzare) tradizioni, modi di vita, lingua, e clima diversi. Spesso l’integrazione risulta doppiamente difficile perché ‘si parte’ lasciando indietro parti importanti del proprio passato. Non che chi ‘non parte’ non si trovi mai in situazioni in cui non si senta un estraneo. Un trasloco da una parte all’altra all’interno di una stessa nazione può causare straniamento.

Quando di passa il confine nazionale, lo straniamento arriva, prima o poi. Sempre. E peggiora più l’età avanza. Lo sanno un po’ tutti. Mia nonna non si dava pace quando hanno chiuso il suo negozio di fiducia e doveva andare a comprare il pane in un panificio 500 metri più avanti. Quando sono partita per l’Inghilterra, ai tempi dell’università, facevo colazione con beans & bacon senza nemmeno battere ciglio. Il cappuccino alle 4 del pomeriggio era routine e i miei li chiamavo ogni tre o quattro giorni. Bastava. Ora invece continua ad irritarmi che in Svizzera, dove abito, le lavatrici sono condominiali; e telefono ai miei genitori anche più volte al giorno.


Per quanto ami la scelta di vita che ho fatto, ci sono stati momenti in cui il disagio e la nostalgia si sono fatti sentire. Forti. Come ho fatto a fronteggiare questi momenti? Ho cercato di integrarmi nel contesto locale.


1. Ho imparata la lingua. È indispensabile acquisire un livello di conoscenza almeno sufficiente per poter andare a fare la spesa e leggere cosa c’è scritto sulle confezioni di alimentari; andare in posta; chiamare elettricisti o idraulici vari (c’è sempre un momento in cui qualcosa si rompe in casa); leggere le comunicazioni che arrivano dall’asilo. In Svizzera i corsi di tedesco di livello elementare sono perfino gratis, in alcuni cantoni. Più in generale, anche se è risaputo che le scuole di lingua hanno prezzi poco economici, imparare la lingua del luogo è il primo e necessario tassello per integrarsi.


2. Faccio network. Manifestazioni e feste paesane, giornate dei ‘musei aperti’, a qualsiasi evento che mi metta in contatto con chi mi vive accanto: se posso ne prendo parte (anche se prima senza figli era più facile). Negli anni, calandomi nel contesto ‘locale’, ho conosciuto altri stranieri, tra cui alcuni italiani, con cui ho legato molto, forse in virtù della condizione di non-svizzeri che ci accumuna. Sono anche entrata in contatto con un discreto numero di svizzeri, persone a cui posso chiedere informazioni sul vivere quotidiano, ad esempio quando arriva il momento della dichiarazione dei redditi. È vero, non tutti i miei contatti sono amicizie che dureranno per sempre. Eppure. Queste persone che ora riempiono il mio presente e mi permettono di essere parte del loro presente mi aiutano, più di quanto loro non sappiano, a sentirmi parte di una comunità, anche lontana dall’Italia.


3. Partecipo a gruppi di genitori. Ce ne sono molti, attorno a Zurigo. Mamme e papà che socializzano, si tengono in contattato online, spesso via Facebook; creano e promuovono gruppi di gioco e organizzano incontri pomeridiani. Dallo sport, all’arte, il balletto, il canto, o il semplice incontrarsi al parco giochi lungo il lago. Se ne ho l’occasione, li porto, i miei figli, a questi gruppi e incontri. A loro fa bene stare con altri bambini e a me serve parlare con altri genitori, di problemi comuni o del caldo che c’è anche qui, oltre le Alpi.


4. Cerco di fare. Avere un lavoro, quando possibile, o un’attività che si ami, com’è per me lo scrivere, sia esso un blog, i miei pensieri qui, una storia per i miei figli. Fare, oltre che essere moglie e mamma, serve per mantenersi positive, obiettive nei giudizi e, in ultima analisi, a vedere luce e colori (non solo ombre) nel posto in cui si vive, senza lasciare che la nostalgia delle proprie origini abbia la meglio.


Ho letto di mamme, che hanno fatto esperienza della depressione, all’estero. Giustamente, si sono rivolte a persone competenti, quali psicologhi. Ho letto di persone tristi, malinconiche, e nostalgiche della ‘propria casa’, perché, immagino, la propria casa è il luogo dove ognuno si sente accolto. In questo senso, allora, l’integrazione gioca un ruolo fondamentale per ‘sentirsi a casa’. Integrarsi in un luogo non vuol dire amarlo alla follia, e nemmeno apprezzarlo in ogni aspetto. Integrarsi, secondo me, vuol dire capire, rispettare, criticare, ma anche sentirsi parte, almeno un po’, nel posto dove si sceglie di abitare o si va ad abitare. Integrarsi vuol poi dire sentirsi a proprio agio nella realtà in cui si vive, parte del luogo, e non più ‘diversi’.


Ci sono tanti modi per integrarsi. In comune hanno il fatto di essere un percorso difficile. Necessario, però per sentirsi sereni, perfino felici. Perché siamo, l’uomo è, un animale sociale. Mai come vivendo all’estero questa riflessione di Aristotele diventa piena di forza e significato.

di Valeria Camia

Sull'autrice
Mamma di due bimbi, con un marito sempre in viaggio per lavoro, scrive delle sue avventure e disavventure giornaliere in Svizzera
http://mammaimpara.blogspot.ch

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