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A 13 anni il primo viaggio studio

di mammenellarete - 14.04.2014 - Scrivici

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Fonte: shutterstock
Mia figlia tredicenne, lontana chilometri da noi, se l'è cavata benissimo. Nonostante un incidente con i pattini a rotelle. Ringrazio molto la solidarietà di chi l'ha curata e soccorsa.

Mia figlia non è piccola piccola, ma voglio raccontarvi ugualmente il dolore di una madre per una figlia che sta male ed è lontana chilometri. Mia figlia quasi tredicenne partiva per la Spagna a casa di una coetanea e la famiglia, era un progetto con la scuola e sapevo che era una bella esperienza oltre che un'opportunità rara. Le ansie da parte mia ovviamente c'erano, vederla poi attraversare i controlli in aeroporto e lasciarla andare per partire con l'aereo è stato estenuante per me. Ma una volta arrivata, la sua telefonata mi ha rasserenato. E così ci siamo sentite ogni qualvolta si poteva.

 

La Domenica mentre ero in chiesa con i miei altri tre figli, durante la confessione della secondogenita, mia figlia mi scrive preoccupata perché non sa quale souvenir scegliere per il nonno... ci scriviamo un po' e penso che sono tranquilla a saperla a caccia di souvenir. Insomma, lei stava bene e il resto della famiglia era sotto ai miei occhi. Perfetto.

 

La funzione finisce e si esce per festeggiare con gli altri genitori, ci ingozziamo di torte fatte in casa e biscotti quando al mio compagno suona il telefonino. Istintivamente guardo il mio, una telefonata persa di mia figlia, avevo il telefonino silenzioso e non me ne ero accorta. Lui mi guarda, strano che chiama entrambi se le avevo detto che ero in chiesa e non potevo star a telefono con lei. Risponde ed il suo sguardo mi fa rimanere di ghiaccio, sento parole sconnesse, lo vedo allontanarsi e guardarmi di sfuggita. Ripeto più volte di dirmi cosa succede, di darmi il telefono, mi chiedo se scherzano per farmi arrabbiare ma poi il suo tono di voce si abbassa fino a scomparire, mi dà il telefono con mano tremante e mi dice che mia figlia è all'ospedale. Io muoio dentro.

 

Aveva messo i pattini con la sua amica per fare un giro, ma erano scese per una strada ripida, troppo ripida per lei e quando ha preso velocità non è stata più in grado di fermarsi.

È andata a sbattere contro un muro.

 

Sei punti al mento, una storta al polso e vari graffi. È sotto shock dal trauma.

 

Riesco a parlare con lei, piange ed urla, dice che ha sentito tutto mentre la cucivano, che è stordita dal colpo e piange tanto senza trovar pace. La mia mente progetta di mollare tutti lì davanti alla chiesa e correre da lei. Ma dove ? Ma come ? Non posso far altro che cercare di calmarla e dirle che tutto si sistemerà.

 

Un'impotenza devastante, sentire la sua vocina tornata piccina che continua a dire: "Mamma ho male". La mia bambina, raccolta da un signore che passava in auto, portata in un ospedale straniero, senza capire una parola, senza nessuno che conoscesse.

 

Iniziano un giro di telefonate tra insegnanti spagnoli, italiani, la famiglia che la ospitava, mia figlia comunque tornava a casa dopo 5 giorni. Cinque lunghissimi giorni. Una volta a casa sola mi sono lasciata andare in un pianto dirotto. Era innaturale essere lontani da una figlia ancora bambina mentre aveva bisogno di me. La volevo vicino, non mi bastava un saluto a telefono. Dovevo toccarla, guardarla, assicurarmi che stesse bene. Avevo paura. Paura che la notte potesse sopraggiungere qualche danno, un mal di testa e nessuno se ne sarebbe accorto. Io a casa l'avrei guardata ogni ora, mentre dormiva. Ma qui, potevo solo stare buona e affidarmi alle cure di gente estranea, sperando fossero competenti.

 

Poi è arrivato il giorno di togliere il cerotto, credevo lo avessimo tolto qui assieme, in Italia ma invece lo avevano tolto all'ospedale. E così dovetti sentire e subire mia figlia che mi chiamava e piangendo mi diceva: "Mamma sono brutta, mi vergogno. Tutti mi guardano".

 

Come spiegarle che avevo visto la foto ed era bellissima, che ero orgogliosa di lei, di ogni suo punto affrontato con coraggio. Che tutto si sarebbe sistemato.

 

Mi dicevano che il peggio era passato, che non subentravano complicazioni da traumi alla testa. Ma per me il peggio sarebbe passato solo quando l'avrei avuta tra le braccia.

 

Ogni giorno era troppo lungo, non riuscivo a dormire, né a seguire la casa e i figli bene come al solito. Ero in stand-by temporaneo.

 

E così era arrivato il momento di andarla a prendere all'aeroporto, avevo paura a vederla ma anche molta gioia dentro. Ci eravamo tutti disegnati di nero una vistosa cicatrice al mento, per non farla sentire sola ed osservata. Avrebbero guardato noi. Quando hanno aperto le porte della sala d'attesa e l'ho vista, così piccola, col foulard attorno per la vergogna e la testa bassa, l'ansia di quei momenti mi è passata di colpo, l'ho stretta forte ed ho pianto di gratitudine. Il leone che aveva vissuto con me dentro, se ne stava andando. Gratitudine per quel signore che l'ha prontamente portata all'ospedale. Per quei medici che hanno fatto una sutura a regola d'arte. Per quella mamma e papà spagnoli che l'hanno curata e aiutata quando non riusciva a mangiare. Ma soprattutto al Signore che ha protetto la mia bambina, che poteva fermare la sua corsa non un muro, ma una macchina. O chissà cos'altro. Che poteva succedere di peggio. Mentre io, ignara, ero qui a mangiar dolci. Mentre mia figlia urlava il mio nome ed io dentro non ho capito nulla, nessuna premonizione. Niente.

 

Poteva essere meno fortunata. Invece il mio souvenir più bello è stato vederla tornare sana e averla qui a casa con noi.

 

Annalisa e Isabel

 

(storia arrivata per email a redazione@nostrofiglio.it)

 

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